Trascrizione puntata con Francesca Serragnoli I°parte
Benvenuti, sono Veronica Tinnirello e questo è Il Rubino, una trasmissione dedicata alla nuova poesia italiana. Oggi parleremo di e con Francesca Serragnoli, dei suoi due libri Il fianco dove appoggiare un figlio e Il rubino del martedì entrambi editi da Raffaelli Editore. E ascolteremo i brani musicali scelti da Francesca: di Keith Jarrett, un breve estratto da Concerto a Colonia, parte I e di Lucio Dalla, Chissà se lo sai.
Come già anticipato oggi incontriamo Francesca Serragnoli, nata a Bologna nel 1972. Ha lavorato presso il Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna. Suoi testi sono apparsi in varie antologie tra cui Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004). Ha pubblicato le raccolte Il fianco dove appoggiare un figlio e Il rubino del martedì con Raffaelli editore. Collabora con la rivista ClanDestino.
Francesca legge una poesia tratta da Il rubino del martedì
L’occhio ti avrebbe perso un giorno di marzo
sciolto il collare nel vento, nell’onda
come si perdono i transatlantici
e si rimane con le funi nelle mani
con quei cartelli con il nome
agli arrivi in casa, sulla porta
come se volessi portarti ancora
fra i tavoli e le sedie
la tv il letto, un viaggio stretto
con vuoti d’aria, la voce aggrappata
a un cornicione, strappata
un cadere nel tempo ti volta
un bacio breve stappa il primo ridere
divento uno spumante da quattro soldi
una canzonetta della radio, un balletto
brucio il libretto di poesie, le pagine
per guardarti il volto illuminarsi
e quella fiamma arresa, scesa sulle ginocchia
ricomincia a toccare l’andare a capo dei lineamenti.
Però non so ancora cosa s’inventa
cosa si fa per far ridere i bambini.
Veronica: Ciao Francesca, benvenuta.
Francesca: Ciao
Veronica:Il fianco dove appoggiare un figlio, tuo primo libro edito nel 2011 si compone di una parte apparsa nel 2003 sulla collana “poeti di clanDestino” e di testi aggiunti successivamente. Marco Antonellini nella sua prefazione alla raccolta afferma che questa scelta è la testimonianza di un’opera che continua nel tempo e che non vuole e non può conoscere pause. Tutto il libro risulta infatti compatto, omogeneo. Qual’è stato il percorso nel tempo di questo lavoro?
Francesca: Dunque è stato un percorso per me lungo e pieno di dubbi. Su che cosa? Sul mio valore. Cioè pieno di domande sul senso di quello che stavo facendo. Se posso permettermi di citare il Vangelo, c’è scritto che risponderemo di ogni parol a pronunciata dalla nostra bocca, in poesia questo credo che non cambi, anzi venga dilatato. Per il primo libro ad esempio andai a cercare una sorta di benedizione dal poeta Mario Luzi con grande gioia per averlo potuto incontrare e conoscere. Cercavo appunto da lui che cosa? Una conferma per andare avanti. E lui cosa mi disse in questa occasione? Tu puoi vedere la realtà diversamente da come la vedi?Puoi sentire la realtà diversamente da come la senti? Io non potrò mai dirti di smettere di scrivere perché lo scrivere è questo: sei tu davanti alle cose che ti accadono. Che tu le scriva o che tu non le scriva rimane sempre il tuo io, il tuo essere, il tuo esistere. Mi tranquilizzò molto…una piccola approvazione sui testi, ebbi anche quella e quindi continuai. Ah, e poi mi disse anche un’altra cosa: Quand’è che un libro è finito? Parole di Mario Luzi: quando tutte le foglie sono cadute. (Ride) Adesso è chiaro, tutto molto più chiaro! Devo dire la stessa indecisione di allora, rimane anche oggi, non è cambiato di una virgola perché scrivere non te lo ordina nessuno, non è obbligatorio, non è una missione, uno può farlo e non farlo. E quindi c’è tutto il dramma di scegliere se creare qualche cosa o non crearlo e fra creare qualcosa e non crearlo c’è un abisso.
Francesca legge una poesia tratta da Il rubino del martedì
C’è chi
quando è contento
lava anche tutti i piatti
e ci sta tutta la sera
girato di schiena
sul lavello
perché un sorso di felicità
muove tutto il corpo
e ognuno balla come sa.
La gioia è un ospite
che accende il ridere
come si accende un cerino nella notte.
Anche gli astronauti si voltano.
Veronica: Questa canzone era Chissà se lo sai di Lucio Dalla. Sylvia Plath, una delle icone della poesia confessionale americana anni ’50 a proposito dell’esperienza autobiografica nella sua poesiascriveva: La scrittura è necessaria alla sopravvivenza del mio spocchioso equilibrio come il pane per il corpo. […] Ho bisogno di scrivere e di esplorare le profonde miniere dell’esperienza e dell’immaginazione, far uscire le parole che, esaminandosi, diranno tutto..[…] In questa tua opera prima, parliamo sempre de Il fianco dove appoggiare un figlio, la tematica autobiografica è piuttosto marcata. La scrittura diventa un elegante centro di esplorazione in cui la prima persona è decisiva. Eppure non manca il costante riferirsi all’altro, un tu. Al lettore sembra di entrare nella tua storia, di guardarti e crescere con te…
Francesca: Sì su questo punto ho riflettuto molto e rifletto sempre ancora perché le risposte non si danno una volta sola e poi si chiude. Continuano, per fortuna perché uno le risposte le riempie di tutto quello che poi successivamente legge, conosce, soprattutto anche grazie alle persone che uno ha la fortuna di conoscere. Comunque nel mio primo libro certo io ho citato quasi volontariamente e non ho eliminato quasi volontariamente tutte le poesie con la parola io, io, io, io perché sentivo come tradimento di non essere, di non rispettare quello che mi suggeriva la mia poesia in quel momento. La questione vera sicuramente non è quella di eliminare il prioprio io. Perché è impossibile. La poesia nasce lì. Come fai a eliminare te stessa, l’intuizione poetica, la conoscenza del mondo? Nasce tutto all’interno del proprio io, della propria soggettività, interiorità personale, privata, unica che uno riconosce nel momento in cui non solo scrive ma si approccia alla realtà. Viene tutto filtrato da questo, non in maniera consapevole ma dentro un abisso che noi non conosciamo e che emerge a volte grazie alla poesia quindi al poetico che non è solo nella poesia ma in tutte le arti, secondo me. Poi parlare di sé come la vedo io? La vedo cone un donarsi. Poi per proseguire questo discorso che sarebbe ampio, ampio, ampio, ampio e forse anche tedioso io posso terminarlo qua ( ride ). Così non tediamo nessuno.
Francesca legge una poesia tratta da Il fianco dove appoggiare un figlio
La bellezza è una droga
ne nasci dipendente
il corpo è un bivio
dove speri d’incontrare
l’universo e metterci un dito dentro.
La stellata di una notte
vorresti fosse un disco
da ascoltare ogni volta
che il buio avvelena.
Quando suoni sembri il pennarello di un bambino
un azzurro a scatti
risali da ogni nota
come un dio mischiato al vino
al tavolo dove abbasso la testa e la fame
quell’azzurro è una bugia
o una chiave
che gira di colpo la testa
e la vita ha la foglia più curva
molto più trasparente della morte.
(ascoltando Miles Davis)
Veronica:Definisci la bellezza una droga. Quali sono i suoi effetti collaterali, se ce ne sono, in materia poetica?
Francesca: Della bellezza se ne dovrebbe parlare per anni, per tutta la vita. Cerco di restringere in questi pochi minuti (ride) qualche cosa. Ciò che è bello non è che sazzia, non è che riempie, ma in un certo qual modo fa risorgere. Fa risorgere l’anima. Nella vita, a volte, oggi soprattutto sembra che la bellezza sia qualche cosa di inutile, qualche cosa in più. Per citare un autore a me carissimo, un teologo ortodosso, Olivier Clément quando parla della rosa dice…non mi ricordo la citazione a memoria, non l’ho scritta…la rosa buca lo spazio e va verso che cosa? Verso quale altrove? È qualche cosa di gratuito, di inutile. Eppure ci si interroga su questa rosa, ci si interroga, la si guarda. La poesia credo che sia un esempio del contrario, nel senso non la bellezza è inutile, la bellezza è l’unica cosa che conta. Dire così sembra quasi che uno si debba comprare un diamante domani oppure non so che cosa. No,no, la bellezza è quella di cui uno si accorge camminando per la strada o facendo qualsiasi cosa che deve fare. Credo ci sia per tutti, che sia un qualche cosa di democratico e parlo anche di chi ha esperienze assurde, dolorose, impossibili. Credo che tirare avanti derivi anche da un segno di qualche cosa che permette…da un pertugio…La bellezza è una specie di pertugio, di crepa in quel nero che si vive purtroppo magari per i motivi più diversi. Dostoevskij diceva, questa citazione me la sono segnata: La bellezza è il campo di battaglia dove Dio e il Diavolo si contendono il cuore dell’uomo. Quindi bisogna guardarci bene alla bellezza, a questo fulgore non solo estetico ma anche intelligente, perché la bellezza è anche intelligente, che raccoglie i nostri sguardi. Mi permetto di aggiungere che è una prospettiva infinita, giusto per riassumere. Non sto parlando di chi ha fede o non ha fede. L’importante è che questo segno rapresenti l’infinito
Veronica: Abbiamo ascoltato un estratto del concerto a Colonia di Keith Jarret. Che cosa ti lega al brano musicale che hai portato?
Francesca: Beh, intanto che è bellissimo. Ti sembra di andare incontro al meraviglioso senza mai catturarlo, come sempre e mi fa capire che vogliamo ciò che non conosciamo, che dobbiamo seguire i segni di quello che non conosciamo nel mistero della musica, anche, soprattutto. La musica vera chiaramente, dico una banalità, è una musica che non distrae ma attrae. Sono convinta che questo sia un esempio di ciò che non è un lamento desolante, non è un vicolo cieco perché l’arte non è mai un vicolo cieco, semmai una nostalgia devastante e non è mai un muro.
Francesca legge una poesia tratta da Il fianco dove appoggiare un figlio)
Non avere paura
le nebbie dondolano sul capo
il tremolio dell’acqua veglia sul lamento
dal tuo letto cadono misteri.
Pesa come fiamma flebile
la poca voce.
Non avere paura
a cielo calmo la notte
è un bacio buono
ora è un buco.
Dovrebbero proibirla la realtà?
A noi deboli di guancia
torbidi di dubbi e diavoli?
Rincasare a piccoli spicchi
piano come cantilena negli anni…
la notte ci fa cani
non avere paura.
A m.
Veronica:Nella poesia che hai appena letto dici: Dovrebbero proibirla la realtà?/ A noi deboli di guancia/ torbidi di dubbi e diavoli? Dovrebbero?
Francesca: Hai colto una domanda fondamentale, centrale di tutta la vita e di tutte le vite. Il dramma dell’esistenza per certi aspetti è inguardabile. La poesia ha la forza di guardarlo in faccia e non di mettere una mano davanti come ad esempio la statua che abbiamo qui a Bologna del Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca che su questo aspetto mi viene sempre in mente. Dobbiamo porci la domanda in questo senso sulla poesia. Perché la poesia ha la forza di scendere in questi abissi? Di arrivare fin dove l’uomo non riesce a guardare lo spaventoso, la realtà spaventosa, torbida, sì, di dubbi, diavoli, tutto quello che vogliamo. E la bellezza di cui abbiamo parlato prima cosa c’entra? La poesia non è certo schizofrenica, cioè nel senso che divide i due aspetti, in una poesia si parla della gioia e in una poesia si parla del dolore. Almeno mi auguro che non sia così. In che senso? Gioia e dolore nella vita esistono in parti uguali, al 50%. (Sorride) Diciamo così 51 gioia, 49 dolore. E quindi mi auguro che in ogni poesia ci siano questi due aspetti che devono esistere insieme. Non può essere evitato uno in nome dell’altro. Dunque anche se dovessimo avere davanti questo mostruoso, questo torbido, l’unica alternativa possibile è di attraversarlo cercando quella rosa di cui parlavo prima, cercando sempre e comunque quel punto che ci permette di non cadere nella disperazione. E secondo me la poesia ha questa capacità di cogliere questa luce che è forte come l’abisso. Ad esempio Maritaine, questo filosofo coglieva in Dante la sua innocenza creativa. Parlava di Dante come ingenuità bambinesca. Perché? Perché Dante credeva a tutte le cose. Quindi io credo che la via più bella che possa avere la poesia è credere a tutte le cose, avere fiducia in tutte le cose e avere questa prospettiva di fiducia. E se possiamo leggere qualcosa ai bambino prima di andare a dormire credo che l’unico sia l’Inferno di Dante perché poi c’è il Paradiso. Le favole sono così, c’è prima l’inferno e poi il paradiso. La poesia dovrebbe essere così. Dovrebbe essere un attraversare in nome di una prospettiva, non in nome, sicuramente, del nulla.
Francesca legge una poesia tratta da Il rubino del martedì
E’ sempre poco il tempo
per guardare le stelle
di ora in ora le sento cedere come truppe
stanche intorno ai fuochi.
È il tempo del fucile spento
la canna fredda tocca il mento
tengo il brivido, le mani in alto
il viso è un bambino scalzo
gli occhi come fionde tirano un sasso
non si sente il tonfo di niente
non fucilare il mio guardare
dov’è l’identità infinita?
il nome che spacca la vetrata della vita?
Il lago specchia me ondulata
imposte rotte sbattono parole vecchie.
Il cielo non è un bar per gente sola
ordino per te la pioggia
e Gesù fra i rami dell’acqua
come un puscher ci guarda
con la roba che spezza la morte.
Veronica: E’ arrivato il momento di salutarci. Volevo ricordare che le due raccolte poetiche di Francesca Serragnoli Il fianco dove appoggiare un figlio e Il rubino del martedì sono reperibili sul sito della casa editrice www.raffaellieditore.com oltre che in tutte le librerie. Se volete seguirvi potete consultare il sito www.ilrubino.it o scrivere a info@ilrubino.it. Grazie a Francesca Serragnoli.
Francesca: Grazie a voi.
Veronica: Grazie a Simonluca Laitempergher per tutto il supporto tecnico e un grazie a voi per averci ascoltate. Alla prossima puntata.