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Trascrizione puntata con Valerio Grutt

19 ottobre 2013 at 20:52

Benvenuti, sono Veronica Tinnirello e questo è IL RUBINO, una trasmissione dedicata alla nuova poesia italiana. Oggi parleremo di e con Valerio Grutt, della sua opera prima Una città chiamata le sei di mattina e della recente raccolta Qualcuno dica buonanotte. A scolteremo i brani scelti da Valerio: Meraviglioso di Domenico Modugno e Non farti cadere le braccia di Edoardo Bennato

Come già anticipato oggi incontriamo Valerio Grutt, nato a Napoli nel 1983. Pubblica il libro Una città chiamata le sei di mattina con le Edizioni della Meridiana, nel 2009 e Qualcuno dica buonanotte con Alla chiara fonte editore nel 2013 Alcune sue poesie sono pubblicate nell’antologia Subway.Poeti italiani underground (Il saggiatore, 2006) ed in varie riviste. E’ sceneggiatore e regista di cortometraggi. Collabora con il Centro di Poesia Contemporanea ed è fondatore dell’associazione Heket.

 

 Valerio legge un testo da Una città chiamata le sei di mattina

 

Farei l’alba e le linee del cielo

con i segni lasciati dal cuscino

sul tuo volto appena sveglia, meraviglia

che ti togli dal sonno e vieni come gli uccelli

di giorno, la tua risata è chiamare il bene

per nome, alzi le reti dei fiori con lo sguardo.

Il fuoco e i confini, le sere gialle hanno la brezza

del tuo respiro, io ti sento esistere nel vento

che piega gli ombrelli, nel petto aperto

contro la notte che si abbassa addosso.

Voglio essere con te l’onda che s’alza

e si fa nuvola, fare come il polline chiaro

sui campi e la luce che libera gli angoli.

 

Veronica: Ciao Valerio, benvenuto.

Valerio: Ciao

Veronica: Una città chiamata le sei di mattina è il tuo primo libro. Subito colpiscono due elementi : il mattino, quello del primo risveglio, che ospita stupore ed epifanie e la tua città, Napoli. In tuo testo hai scritto: Un giorno tornerai a Ischia lucente /
isola sola, lontana mille anni dal mare. Tu te ne sei partito a vent’anni. Cosa c’è in te e nella tua raccolta di questi luoghi?

Valerio: Ma, diciamo che inevitabilmente Napoli fa fortemente parte della mia vita e della mia poesia e in generale di tutto quello che faccio. Sono andato via a vent’anni…ma forse anche da quando sono andato via Napoli ha cominciato ad esistere in maniera ancora più forte nelle cose che scrivo. È una città che credo sia davvero piena, aldilà del cliché, ancora di tante cose da dire. Una città che nel bene e nel male tiene dentro una sensazione molto forte di verità.

  

Valerio legge un testo da Una città chiamata le sei di mattina

 

Un giorno tornerai a Ischia lucente

isola sola, lontana mille anni dal mare.

L’abbronzatura all’oro degli anni

che brilla di notte al gelato d’agosto

 

e scale di case dall’aria salata

che increspa i capelli, e salite e discese dagli occhi.

A lui chiederai i capelli a cavatappi,

e di pettinarti giornate strappate all’abbraccio

 

della madre larga e del padre fascista

che ti compra le scarpe per camminare in campagna

e t’adotta alla zia che ti lascia una corda

per attaccare il sole a una sedia sul balcone.

 

Mamma che sfogli settimane enigmistiche,

e t’accendi al divano per le corde che stridono

dell’ascensore che mi porta al quarto piano.

Figlia di un marito scorpione e parrucchiere,

 

che giocava nella vita da angelo, tirato giù da un albero

a bere dagli spigoli le cose felici, tendeva una mano

al tuo sonno cattivo e tre figli, ti baciava sereno

come se non esistesse la pioggia ed il buio.

 

Tornerà la gioia del primo giradischi

la scoperta di cose naufragate nell’ombra.

Le ali aperte dei figli tuffati, alla buona pazienza

del cuore, di piazze, di auto al casello,

 

del respiro, vacanze, di sere finite

alla noia beata dell’essere soli.

Verrò a mangiare melanzane a funghetti,

all’alba del tuo sorriso preso a bellezza dei salti di uccelli.

 

Veronica: Nel tuo cortometraggio Ci vediamo dopo (ovvero cosa succede quando si muore) due vecchi psicopompi napoletani in stile anni ’50 guardando l’abbraccio tra l’uomo che hanno accompagnato nel regno dei morti, che è un parco assolato e la consorte ritrovata, si dicono in dialetto napoletano: E’ bella la vita / E pure la morte. Anche nel tuo libro tracci questo momento, momento che compare spesso, talvolta come un ritorno, un ricongiungimento e sì, c’è il buio, caricato alla nuca e sparato, come cita un tuo verso, la morte che è un vento scuro, ma c’è anche luce e profumo, o comunque il tentativo di un bagliore…

Valerio: Mah, sai, l’elemento della morte è un elemento che mi sono ritrovato addosso lavorando e scrivendo. Mi piace pensare alla morte come una parte reale della vita e quindi mai come una cosa che finisce ma come un passaggio, cioè come un nuovo inizio più che una fine. Poi la poesia che citi tratta dal libro è venuta fuori in pochi minuti ma c’ho messo più o meno dieci anni a tirarla davvero fuori perché parte da un’avvenimento molto importante della mia vita.

 

Valerio legge un testo da Una città chiamata le sei di mattina

 

a mio padre che sarà tra forbici e stelle

 

Quel giorno avevano chiuso agosto

con i limoni sugli occhi

 

non sapevo ancora niente

degli aperitivi e dei film di Burton

 

giocavo a pallone

con la maglia del portiere

 

al centro del grande zabaione

dove Napoli galleggia

 

nella sala d’attesa

tolsero l’acqua al pesce rosso

 

il dottor temporale disse di chiudere le porte rimaste socchiuse

ci caricarono il buio alla nuca e spararono

 

era un elefante con le gambe secche

e non ci volle molto a cadere

 

era l’ultima Via Santa Lucia

che se ne andava timida dal golfo

 

hanno visto alzarsi in volo uno stormo

dalla piazza fredda del letto di mia madre

 

hanno tolto l’uomo

hanno sradicato le sue mani dalle mie

 

quando tornerà sarà davanti agli occhi di Antonio

e tra le braccia di Maria come il figlio che non ha

 

quando tornerà non sarà buio il corridoio

si siederà a tavola e dirà: “perché avete aspettato tanto…

 

potevate cominciare”.

 

Veronica: Abbiamo appena ascoltato Meraviglioso di Domenico Modugno. Cosa ti lega al brano musicale che hai portato?

Valerio: Amo modugno. Per me è il più grande cantante del mondo insieme a Frank Sinatra. E niente…Meraviglioso è una canzone che veramente nei momenti anche più bui che possono capitare è una canzone che ascolti e ti apre il cuore, ti dà la capacità di guardare un po’ oltre anche al piccolo problema che ti sta capitando in quel momento della tua vita. Canzone bellissima, spesso l’ho reputata la mia canzone preferita.

Veronica: Qualcuno ti ha definito poeta pop. Nel tuo lavoro sono molto radicati i dettagli del contemporaneo. Acuto narratore lirico dei dettagli, ti definisce infatti Davide Rondoni nella sua prefazione al tuo libro: icone mediatiche, spot, marchi. Insomma ci sono gli elementi di una memoria visiva tipica degli anni ’80-’90. Come per esempio le copertine di Cioè, la maglia mars di Maradona, il giocattolo he-man. Io avevo chiamato un pesce rosso Michael J. Fox perché ne ero innamorata. La tua Beatrice invece è Winona Rider…

Valerio: Sì, Winona Rider…sono stato follemente innamorato di Winona. Le ho anche spedito il libro però poi mi è tornato indietro, non perché non l’ha voluto, perché era sbagliato l’indirizzo, era molto difficile trovarlo. Questi elementi qui…sì poeta pop io non amo particolarmente le definizioni, che sembra una frase fatta, però insomma un po’ è vero. Sai, tutti quegli elementi lì che fanno della mia poesia, ma in particolare di Una città chiamata le sei di mattina come libro, che si possono appunto definire pop, io non l’ho fatto apposta a scriverli, cioè nel senso è una cosa che fa parte della mia vita quindi mi sembra normale che vadano a finire anche nella mia scrittura. Io amo pensare al poeta, o comunque a me, come un’antenna che coglie i segnali. Poi più l’antenna è pulita, è bella, è nuova eccetera più il segnale viene trasmesso meglio e naturalmente il segnale passa attraverso quest’antenna, quindi le esperienze di quest’antenna. Alla fine gli argomenti come hai detto anche tu prima sono sempre gli stessi, cioè sono l’amore, la morte, però se ne può parlare in tanti modi e con tanti elementi che siano gli uccellini, la montagna, il mare o che sia il Cioè, Ritorno al futuro o Star Wars.

 

Valerio legge un testo tratto da Una città chiamata le sei di mattina

 

se tu fossi stata innamorata di me

avrei trovato aperto un supermercato deserto

 

in cima alle stelle pieno di cioccolato

con gli scaffali lunghi del tempo rimasto sulle autostrade

 

e tu seduta nel carrello con un sorriso d’albero

avresti detto: voglio questo e voglio quello!

 

e invece patetico come l’uomo farò la fila con gli altri

e triste la cassiera mi darà il resto nel giorno grigio di un K.O.

 

 

Veronica: Quali sono stati i tuoi riferimenti poetici più forti?

Valerio: Diciamo che in partenza quasi nessuno. Un dono che mi fece mio zio Il porto sepolto di Ungaretti, quello è stato molto forte, verso i quattordici anni. Poi ho sempre amato i poeti che alcuni definiscono semplici, Prévert, Neruda, quelli che piacciono alle ragazzine, che li trovi su internet, su facebook come citazioni; però li ho sempre amati molto anche per questa capacità di arrivare a molti, non per una questione naturalmente di ampiezza di pubblico ma proprio per una questione di comunicazione profonda, di apertura di cuore, insomma. Poi, molti dei miei diciamo maestri tra virgolette sono stati i cantautori, ma non solo cantautori tipo De André, Tenco, Ciampi, non solo quelli, anche proprio le canzonette da radio, i jingle. Fa più parte quello della mia poesia che la grande poesia italiana del novecento…poi naturalmente sì come ho amato Ungaretti, ho amato Caproni…anche se alla base di tutti questi c’è la scoperta reale che è quella della Commedia di Dante. Aldilà dell’esperienza scolastica quando poi ho avuto la possibilità in un’età un pochino più matura di leggerla completamente, capirla, viverla più che capirla…quello ha cambiato non solo la mia poesia ma anche il mio modo di guardare la vita.

Veronica: Questo era Edoardo Bennato con Non farti cadere le braccia. Bennato è stato un dei cantautori di riferimento?

Valerio: Bè in realtà no, non lo è stato. Però questa canzone come dicevo anche per Modugno, veramente non mi ha fatto cadere le braccia in alcuni periodi della mia vita. È una canzone che l’ho ascoltata aldilà della musica, del testo. Ha proprio un’energia, cioè un’energia sua forte, si vede che è vera, che è sincera. Poi all’interno c’è quest’immagine della madre, che per me è un’immagine fondamentale, infatti il mio libro è anche dedicato a mia madre, ci sono alcune poesie dedicate a lei. C’è quest’immagine della madre, del bambino che sale le scale, di lui adulto che torna bambino, tutti elementi per me molto forti. E appunto questa canzone in alcuni momenti mi ha dato una spinta, una forza veramente importante.

 

Valerio legge un testo da Una città chiamata le sei di mattina

 

La verità alla fine del male

fulmina le lampadine.

Urla forte come un angelo

pieno di sonno

in mezzo a un temporale.

 

Veronica: Tu collabori con il centro di poesia contemporanea di Bologna. Come è nato questo incontro e quali sono le sue attività?

Valerio: Ma…il Centro…è nato in maniera davvero casuale. Non sapevo dell’esistenza del Centro di poesia fino a quando, dovendo fare il servizio civile, sulla domanda avevo scritto, io vent’enne scapestrato, poeta, per gioco. Quando poi il signor burocrate mi chiamò perché mi avevano preso all’Università di Bologna per fare il servizio civile: Valerio Grutt, Centro di poesia contemporanea…faccio, come Centro di poesia contemporanea? Esiste un centro di poesia contemporanea? Mi sembrava una cosa surreale. E poi da lì insomma sono arrivato al centro, ho conosciuto Davide Rondoni, Francesca Serragnoli. All’inizio un po’ come obiettore davo una mano in generale, poi è andato avanti per anni il rapporto proprio perché il Centro in tutti questi anni, ormai esiste da più o meno quattordici anni, adesso non mi ricordo di preciso, ha dato la possibilità ai più giovani di entrare in contatto con poeti affermati, maestri. Ha dato la possibilità quindi di conoscere l’ambiente editoriale della poesia attraverso laboratori, festival, incontri. Questa è una cosa che condivido. Una delle ultime esperienze è l’atelier delle arti,  una settimana per i ragazzi delle scuole superiori e l’incontro con artisti, musicisti, scrittori, poeti, dove aldilà della lezione in sé che tiene l’artista c’è la possibilità di mangiare assieme, bere una birra. I ragazzi hanno la possibilità di far leggere al poeta le proprie cose, di far vedere i propri disegni all’artista e quindi di creare uno scambio che va un po’ aldilà della questione didattica, della cattedra, ma crea un avvicinimento reale all’esperienza di ogni artista.

Veronica: Hai fondato inoltre l’associazione Heket insieme a Matteo Totaro Moretti…

Valerio: Heket praticamente è la dea rana, la dea egizia protettrice delle nascite, la dea ostetrica. Heket è nata un po’ appunto per delle nascite di poesia, aldilà di altre attività che si faranno.  Avrà anche una piccola collana editoriale, ma piccola davvero, nel senso libricini tascabili piccolissimi pubblicati in 99 esemplari e basta, cuciti a mano uno per uno con copertine fatte a mano uno per uno. La prima uscita è Ivonne Mussoni, una ragazza di diciotto-diciannove anni di Rimini, molto brava secondo me. Sono solo docici poesie. È nato anche un po’ per dare alla poesia un’idea di preziosità, ma anche di segretezza, una cosa da custodire, piccola, da portare con sé, in tasca. È una cosa che non prevede nessuna crescita particolare, nessun margine di guadagno, assolutamente e proprio perché volevamo fare una cosa bella, cioè l’esigenza di fare una cosa di bellezza.

Veronica: Parliamo ora della tua ultima raccolta Qualcuno dica buonanotte edita quest’anno da alla chiara fonte editore e che ti vede anche autore del disegno di copertina…

Valerio: Sì, disegnino. Sì, ma non è proprio una raccolta, è una piccola plaquette con dodici inediti. Mauro Valsangiacomo che è appunto l’editore in realtà è artista e fa questi libretti, ne fa in duecento copie, cento li tiene lui a Lugano, cento li dà al poeta che ha scelto. È una cosa molto bella secondo me. E diciamo queste poesie sono un po’ come una fase di passaggio, cioè come la registrazione di una fase di passaggio. È un libretto secondo me molto intimo. Il titolo Qualcuno dica buonanotte chiama appunto quest’intimità. È un libretto da leggere la sera prima di andare a dormire. Sono poesie la maggior parte romane, scritte in un periodo che ho vissuto a Roma e questa cosa si può notare o no ma io sento molto forte la presenza di Roma. Adesso in realtà sto lavorando a degli inediti che sono anche abbastanza diversi da questo libretto qui. Volevo chiudere, segnare un periodo e anche una fase di scrittura che in qualche modo è stata fondamentale.

 

Valerio legge un testo da Qualcuno dica buonanotte

 

Qualcuno dica buonanotte

ai ragazzi che parlano sottovoce

al buio, mentre il mondo li capovolge.

Qualcuno dica buonanotte

a chi non ti saluta per paura

che tu non ne abbia voglia.

A chi si gira e rigira per la rabbia,

per la guerra col pensiero,

per il nero o per la pioggia.

 

Buonanotte, si sentano scaldare

i campi di ferro arrugginito,

i palazzi senza balconi, il fiume

soffiato, la vedova e il suo Gesù.

Qualcuno dica buonanotte

e spinga il sipario su questo giorno

fuori dal binario, sulla spiaggia

dove sono caduti gli uccelli.

Qualcuno sussurri, fedele

all’orecchio dei cani che dolce

sarà la notte, il riposo, il dopo.

 

Veronica: E’ arrivato il momento di salutarci. Ricordiamo i due libri di Valerio Grutt Una città chiamata le sei di mattina (edizioni La Meridiana) e Qualcuno dica buonanotte (alla chiara fonte edizione). Potete seguire Valerio su www.valeriogrutt.org e le attività della sua associazione su www.heket.it Per quanto riguarda invece Il Rubino potete ascoltare il podcast della puntata e leggerne la trascrizione su www.ilrubino.it e scrivere a info@ilrubino.itGrazie Valerio

Valerio: Grazie Veronica.

Veronica: Grazie a Simonluca Laitempergher per tutta l’assistenza tecnica e un grazie a voi per averci ascoltati.

 

 . 

Trascrizione puntata con Martina Campi

14 ottobre 2013 at 13:07

Benvenuti sono Veronica Tinnirello e questo è IL RUBINO, una trasmissione dedicata alla nuova poesia italiana. Oggi parleremo di e con Martina Campi, del suo libro Estensioni del tempo e ascolteremo i brani musicali scelti dalla nostra ospite: Fiction degli XX e Reckoner dei Radiohead.

Come già anticipato oggi incontriamo Martina Campi nata a Verona nel 1978. Nel 2012 è tra i poeti segnalati al Premio Montano con la raccolta inedita La saggezza dei corpi. Nello stesso anno vince il premio Renato Giorgi con il libro Estensioni del tempo che le vale la pubblicazione con Le voci della luna editore. Si occupa insieme a Mario Sboarina di un progetto musicale autoprodotto, Memorie dal sottosuono.

 

Martina: Giorno #da La saggezza dei corpi. Abbiamo bisogno di tutto ciò che piangiamo e questa è una citazione di Jodorowsky da I Vangeli per guarire che tornerà in modo ricorrente in tutta la raccolta.

 

avremmo forse voluto spalancare (preferendo)

le braccia, tra l’oggi

e il domani di carta carbone

raccontato, necessario, riverso

mescolarci forse alla pioggia

tradurci nella luce

avvicinarci

un poco, di più, almeno

concederci un’adeguata quantità

di sguardi amorevoli

disarmare gli elefanti

credere alle mani

avremmo forse preferito, davvero

trattenere le armate

sconfinare sorrisi, a tavola

scambiarci il sale e il pane

tracciare scie di lenzuola

sul pavimento

come zattere (che ci salvano)

il mattino

e invece

da vicino

resistiamo

ad aspettarci

 

Veronica: Ciao Martina, benvenuta.

Martina: Grazie Veronica per l’invito e un saluto a tutti quelli che ci stanno ascoltando.

Veronica: Passiamo ad Estensioni del tempo, tuo lavoro più recente. Riflessione sul tempo, l’ascolto, la memoria. Evochi grandi pensatori come Bergson, Hume, Barthes, Wittgenstein, Eraclito. Una tua ouverture ad inizio raccolta riecheggia e non si rompe niente / ma tutto si trasforma. Qual’è quindi il tuo rapporto con l’eredità filosofica?

Martina: Ecco il mio rapporto ad essere onesta non è da studiosa di filosofia, da esperta di filosofi. È più che altro un utilizzo che io ne faccio per crescere come posso utilizzare per esempio le discipline orientali o le discipline latine, cioè tutto ciò che mi porta a un ampliamento di coscienza e che io vedo utile per me e per chi mi sta intorno, per la mia crescita personale. Quando magari dentro di me ci sono dei frammenti scomposti di cose strane poi apro un libro di Wittgenstein ed è messo tutto lì ordinato (ride) io mi sento guidata. Vedo queste persone come dei maestri da seguire e che poi, in un certo qual modo, senza magari che io ne sia più di tanto cosciente o non sempre cosciente s’infilano o si trovano nelle mie scritture tracce dei miei incontri o delle mie letture con questi personaggi.

 Dalla sezione Destinati a scomparire, Piano Marino. Il libro è Estensioni del tempo

 

Giotto aveva la terra sui calzari

dopo la pioggia e i mari e

le navi

 

le navi in attesa di rientrare

in porto

passeranno la notte al largo

 

Gli specchi negli ascensori

sono per sfuggirsi appena

appena un ciuffo

 

il colletto,

l’occhio che cade,

il mondo per le scale.

 

 

Veronica: Abbiamo sentito Fiction degli XX, trio indie britannico. Ne Alla ricerca del tempo perduto Proust scriveva: Un’ora, non è solo un’ora, è un vaso colmo di profumi, di suoni, di progetti, di climi. Nel tuo libro diverse sezioni ricordano l’onda, le foglie, l’ombra, le stelle, il vento. Che cos’è per te la memoria?

 

Martina: Questo tipo di memoria nel libro io l’ho inteso come simile anche a una memoria di tipo quasi cellurare. Ed è per questo che l’ho esteso alla foglia, all’onda, all’ombra e cioè una sorta di registrazione che si genera e si costituisce quasi a mia insaputa dentro queste cose e mentre io le osservo, di conseguenza dentro di me; e quindi in un certo senso contribuisce a formarmi. Questo era un po’ il punto di partenza. Poi da lì sulla memoria, appunto Proust eccetera, possiamo dire di tutto di più. Per me non contiene fisicamente le cose ma la loro essenza. Quindi qualsiasi cosa noi perdiamo, in realtà, abbiamo un luogo in cui c’è. E quindi questo libro, siccome è nato anche da un senso di perdita, anche il titolo Estensioni del tempo …ho desiderato trovare un modo, una realtà molto più vasta di quella che noi percepiamo o ci permettiamo di percepire…È stato anche un mio modo di poter permettermi di percepire una realtà molto più ampia in cui la memoria fosse viva, fosse presente, non fosse una cosa solamente legata al passato. Ma fosse una cosa che sta sulle nostre cellule, sulle cellule della foglia, in qualsiasi momento. Sono stata un anno in Kenya a visitare una foresta sacra e c’era questo albero antichissimo di quattrocento anni dove gli abitanti della foresta abbracciavano questo albero per entrare in contatto con i loro antenati, cioè per entrare in comunicazione con i loro antenati andando anche all’indietro di quattrocento anni. Lì mi sono chiesta sul tempo e sulla memoria.

 Dalla sezione I gatti lo sanno, #

 

e quindi se hai

le mani a coppetta ti

ci può piovere dentro

di tutto

 

i sassolini che ti guardi

finché camminando

scricchioli

 

lo zucchero mentre fuoriesce

dai barattoli

del mattino, lucidi

 

perché le mani

ti ricordano

quando hai nuotato

al largo, la prima volta

 

e poi lo raccontavi

 

 

Veronica: Altro motivo di ispirazione è l’universo.Ciò è particolarmente evidente nella sezione Memoria delle stelle. Scrivi: Abbiamo creato una stella / in miniatura / ben presto, essa, / ebbe compagni. E non mancano corpi celesti, pianeti, e polveri…

Martina: Eh sì.(Ride)…L’universo…sono arrivata lì, non potevo che arrivare lì probabilmente.(Ride) Nel senso che è oltre ciò cui lo sguardo non ha più un oltre, o almeno così ci sembra, data la teoria del multiverso eccetera eccetera. Volevo anche cogliere un punto di partenza per noi, come persone, come esseri umani, qualcosa da cui provenire, anche forse qualcosa a cui tornare. Per esempio noi in questo momento stiamo fluttuando attorno a una stella, ai confini di una galassia e allo stesso tempo siamo un granello di polvere che partecipa a una storia che per noi ha un’importanza che è fondamentale, no? E quindi io ho cercato la mia coscienza per arrivare a concepire una cosa di questo tipo e staccarmi dal dualismo e sentire la continuità…sentire…detto in poche parole….l’amore incondizionato.

 E quindi dalla sezione Memoria delle stelle, Cento secondi:

 

  

Continuerà ad esistere

l’universo, per almeno altri

ventotto milioni di anni

 

da vicini siamo blu,

poi ci allontaniamo

nel rosso

 

convergiamo su tavole

igienizzate quando

la luce non esisteva, ancora.

 

Per quanto possa sembrare

strano, abbiamo da imparare

che il tempo non esiste

 

è solo il dentro,

che si espande.

 

 

Veronica: Agostino disegnava il tempo con una freccia…un tempo lineare con un inizio e una fine. Le culture orientali parlano di tempo senza inizio e senza fine, invece. E anche tu hai parlato di continuità. Come hai letto prima..per te il tempo non esiste, è solo il dentro che si espande. Volevo approfondire un altro po’ questo punto di vista.

Martina: Ecco io volevo prima di tutto, magari da un punto di vista egoistico, fare esperienza di questa cosa. Perché appunto la leggiamo di qua e di là ma poi nella realtà come sentirla, come metterla in pratica e io ho voluto provare a fare questo. Poi per Agostino, l’inizio e la fine condividono la stessa natura quindi è anche un modo per caratterizzare la circolarità del tempo e un altro appunto è dire che c’è un inizio e c’è una fine. Io come ho già detto vorrei discostarmi dalla dualità ed esperire qualcos’altro che secondo me è più ampio e perciò non sottostare alle leggi causa effetto. Cioè per me il tempo non è quell’asfaltatrice che si mangia la mia vita mentre la percorro ( ride ). Io voglio vivere quest’esperienza dove tutto si trasforma, eppure restando se stesso evolve. Vorrei appunto che…insomma mi piacerebbe che tutta la conoscenza nostra occidentale di secoli potesse unirsi con quella orientale e creare veramente qualcosa in cui la persona si senta libera. Cioè io vorrei vedere che le possibilità che noi abbiamo non si esauriscono, continuano a succedere. Il tempo esiste perché a noi serve che esista per avere dei punti a cui aggrapparci, ma nel momento in cui abbiamo bisogno di qualcosa di più ampio ci accorgiamo che il tempo è uno strumento e quindi come tale mi piacerebbe trattarlo.

 Dalla sezione Gli incontri nel sole, numero 1

 

 

Perché mai cadevano le cose?

Orde di guerrieri mongoli

attaccarono Caffa.

 

Cadaveri appestati catapultati:

e la vittoria si tramutò

in un disastro

 

Lo spazio accanto

è espressione

lo stritolamento dei minuti

 

mentre crollano gli armadi

in frantumi

al pavimento.

 

  

Veronica: Questo era “Reckoner” dei Radiohead estratto dall’album In RainbowsLoredana Magazzeni nella prefazione definisce la struttura della tua opera una partitura musicale. Anche linguaggio e tessitura sintattica assumono il ritmo di uno spartito. Spazi bianchi, marcate interlinee, versi brevi, alcuni composti di un solo lemma che di colpo va a capo. Il bianco diviene così respiro, contrappunto musicale. Inoltre la prima poesia del libro è dedicata al jazzista camerunense Richard Bona, un compositore che mette insieme ritmi psichedelici alla Wheather Report e sonorità africane. Quanto la musica ha determinato il tuo lavoro?

Martina: Moltissimo. Fin da quando ho inziato a scrivere moltissimo, qualsiasi tipo di musica anche se ho poi le mie predilezioni, insomma, come tutti. Ad esempio Richard Bona, che tra l’altro ho scelto di iniziare la raccolta con questa poesia perché Richard Bona nella poesia si trova a vivere un esempio di sincronicità… Le canzoni per me sono quasi come un campo in cui immergermi e farmi sommergere. La musica è molto diretta, quindi non ha bisogno di barriere anche se le parole talvolta non si capiscono la musica arriva, comunica. Mi faccio quasi muovere talvolta da questa musica. Per questa registrazione è stato molto difficile scegliere soltanto due pezzi, (ride) tra l’altro quasi elettronici, nel senso che sono appunto su un versante, mentre poi io vario molto e sono molto legata al folk, per esempio a Jason Molina. Questo è tutto per dire che per me è inscindibile da me la musica, e per questo anche che talvolta porto la mia poesia in giro con la musica con questo progetto che si chiama Memorie dal sottosuono in cui la musica non è il classico tappeto che accompagna la poesia ma è proprio parte integrante. Le parole si fondono, si confondono, creano delle strutture insieme alla musica. E questo per me e per Mario Sboarina con cui siamo partiti poi dopo si sono aggiunti Valentina Gaglione, Fabio Fanuzzi, Michele Petrucci che hanno aderito con grande amore e passione al progetto è molto importante, moltissimo. Una volta la poesia veniva accompagnata dalla cetra. Noi cerchiamo di recuperare quella tradizione però allo stesso tempo farla nostra, con la nostra identità di adesso. Quindi è una ricerca particolare a cui io tengo molto. Sono due cose distinte, il momento creativo, poetico e il momento in cui poi andiamo e facciamo la memorie dal sottosuono. Tuttavia sono altrettanto importanti per me.

Veronica: Siamo arrivati al termine della nostra puntata. Vi ricordo il libro di Martina Campi Estensioni del tempo edito da Le Voci della luna e che per ulteriori dettagli potete consultare il sito martinacampi.wordpress.com e seguire le attività del suo progetto poetico musicale su memoriedalsottosuono.wordpress.com. Invece potete ascoltare il podcast della puntata e leggerne la trascrizione nel nostro sito www.ilrubino.it e scrivete a info@ilrubino.it

 

Grazie Martina.

Martina: Grazie Veronica, grazie al Rubino, grazie a tutti voi che avete ascoltato.

Veronica: Grazie a Simonluca Laitempergher per tutta l’assistenza tecnica e un grazie a voi per averci ascoltate.

 

Trascrizione puntata con Franca Mancinelli

8 ottobre 2013 at 12:56

 

Benvenuti, sono Veronica Tinnirello e questo è Il Rubino, una trasmissione dedicata alla nuova poesia italiana.

Oggi parleremo di e con Franca Mancinelli, dei suoi due libri  Mala kruna e Pasta madre e ascolteremo i brani scelti dalla nostra ospite: Misirlou, nella versione riarrangiata per il film Pulp Fiction di Quentin Tarantino di Arvo Part, Für Alina.

Come già anticipato oggi incontriamo Franca Mancinelli, nata a Fano nel 1981.Pubblica due raccolte poetiche: Mala kruna con Manni Editori nel 2007 (premio opera prima “L’Aquila” e premio “Giuseppe Giusti”) e Pasta Madre, edito da Nino Aragno editore, 2013 (finalista del Premio Castello di Villalta e del Premio Metauro, Premio Alpi Apuane). Un’anticipazione di questo suo secondo libro è apparsa in Nuovi poeti italiani 6, Einaudi, nel 2012. Sue poesie sono inoltre presenti in varie riviste e antologie. Collabora come critica con Poesia, Crocetti editore.

 

Franca legge un testo da Mala Kruna: 

 

vorrei con le parole aprirti

questa vita come una mano

che sul tavolo capovolta

aspetta d’essere riempita

stretta nella tua. Vorrei la lingua

a chiudere ogni foro, a intonaco

di questo intreccio di sterpi bruciati.

Saremo due camicie

appese l’una dentro l’altra

per una stagione intera

dove la penombra ha immerso

l’amo negli inverni

 

Veronica: Ciao Franca benvenuta.

Franca: Ciao.

Veronica: Volevo riportare un tuo commento: Può essere che la poesia sia una sorta di ragnatela tesa o trappola mimetizzata nel terreno, mentre il cacciatore nascosto, attende. C’è anche un modo di fare poesia che invece aggredisce direttamente la realtà andandogli incontro, il mio forse ( è probabile ) non è di questi. Intitoli il tuo primo libro Mala Kruna, in croato, Piccola corona di spine. Come è arrivato a te? Come suggerisce la poesia che apre la raccolta? Come un’annunciazione in una lingua misteriosa?

Franca: Sì, è stato proprio così. Infatti credo che la mia scrittura nasca da un’attesa, da un ascolto, soprattutto della voce dell’altro. Questo libro è nato proprio da un viaggio che avevo fatto in Croazia in barca a vela. Durante un giorno di cattivo tempo mentre non potevamo più andare in barca e quindi ci eravamo fermati, camminando in un’isola una vecchina del posto mi è venuta incontro e mi ha detto questa frase di cui io non sapevo il significato però il modo in cui si è avvicinata a me è stato un modo che mi ha forlgorato. Poi dopo lei si è come avvicinata a un muro dove c’era l’annuncio di una festa religiosa, di una processione e mi ha come portata verso questo luogo. Il giorno dopo andando in un mercantino ho scoperto il significato di questa parola che mi aveva detto: mala significava piccola e kruna, corona, anche corona di spine. E quando ho saputo questo, questo incontro è diventato ancora più importante in qualche modo, decisivo. E l’ho portato in me fino a che non sono riuscita in qualche modo a trascriverlo in quella che è diventata la poesia di apertura al mio primo libro e poi è diventato anche il titolo proprio del mio primo libro: Mala Kruna.

 

Franca legge un testo da Mala Kruna:

 

all’orizzonte un mare diverso

fermava il sangue sotto le unghie;

madre nera nell’isola

ti venne a fianco e ti disse del vento,

un cattivo tempo che non faceva

partire le barche;

poi fissò un punto sul muro

lungo la strada iniziava una festa

 

mala kruna, disse

piccola corona di spine.

 

Veronica: L’architettura di Mala Kruna e la citazione in esergo tratta dal XXVI canto dell’Inferno, quello di Ulisse, lasciano intravedere un motivo importante: il tentativo di andare, emanciparsi, crescere per arrivare poi a scoprire l’amore e la sua perdita. Eppure in questo tuo primo lavoro, tale distacco non sembra avverarsi del tutto. E’ così?

Franca: Sì…L’esergo che ho scelto per Mala kruna è tratto da un canto dell’Inferno che amo tantissimo e che ho imparato a memoria da quando facevo le scuole superiori quindi dalla prima volta in cui ho incontrato questo canto ed è questo, il canto di Ulisse, quello che dice: Né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre, né’l debito amore. Io ho isolato questi due versi e mentre in Dante questi due versi continuano e sono come l’inizio di un viaggio, di qualcosa che non impedisce la partenza… invece lasciandoli così in questa negatività che si ripete, isolandoli, mi sono accorta che erano in qualche modo la descrizione di un trauma, di una negazione ripetuta e mi sono accorta che dicevano qualcosa che forse volevo dire e che nel libro era in qualche modo sottotraccia ma non era mai affermato compiutamente come in questi due versi. Eh…sì, Mala Kruna è un tentativo di allontanarsi da una ferita e anche di crescere perché è un viaggio che parte dall’infanzia e dall’infanzia attraversa l’adolescenza e poi arriva a questa età senza nome, senza definizioni di cui parlo nell’ultima sezione che si intitola Un rudere la casa. E quindi non c’è un compimento, non c’è una casa perché anche la fine di questo viaggio è una casa che è un rudere, distrutta o ancora da ricostruire. Sì, io sento spesso di compiere dei passi però poi di essere comunque legata come in una sorta di prigionia che in realtà mi porta indietro. In più poesie parlo di un passo che compio e anche in questa dove questo passo che faccio nell’aria diventa un’unione di cose separate, di nascite e di non nascite… e questo arco che la ragazza disegna, che è un’apertura alla vita ma che può essere anche una sorta di aprirsi e quindi di distruggersi.

 

Franca legge un testo tratto da Mala kruna

 

e la ragazza arco

appoggia un piede in aria e congiunge

costellazioni di non generati

al grido che ha rotto ora le acque,

appesa la pelle a un ramo cattura

il vento, è una busta della spesa

di desideri altrui

svaniti in uno sguardo

 

nel treno del mio sangue

salite

  

Veronica: Questa è Misirlou, un pezzo tratto dalla colonna sonora di Pulp Fiction di Quentin Tarantino. Misirlou che appartiene alla tradizione folkloristica greca. Come mai questa scelta?

Franca: Perché è un testo legato alla mia adolescenza ed ho dei ricordi molto belli legati a questa musica con la mia migliore amica mentre ballavamo nel bar dove ci ritrovavamo sempre con i nostri amici. In questo pezzo riconosco questa sorta di carica, di apertura appunto che c’è verso quello che non si conosce…insomma una sorta di festa che si prepara ed è la festa un pò anche di cui parlo nel primo testo del libro: all’orizzonte iniziava una festa.

 

 Franca legge un testo da Pasta madre

 

Un colpo di fucile

e torni a respirare. Muso a terra,

senza sangue sparso.

Cose guardate con la coda

di un occhio che frana

mentre l’altro è già sommerso, e tutto

si allontana. Gli alberi

si piegano su un fianco

perdono la voce in ogni foglia

che impara dagli uccelli

e per pochi istanti vola.

  

Veronica: Pasta Madre è la tua recente raccolta. Qui lo sguardo si fa organo cavo, sempre più capace di accogliere gli indizi di ciò che fuori si compie. Scrivi: quello che sono è una finestra/ il peso che avevo l’ha raccolto/ in sacchi scuri l’alba. Milo De Angelis, nella sua nota afferma che Tutto il libro è un sottrarre e un levigare, uno sforzo di purificarsi, di giungere a una nudità che è conoscenza. E’ anche uno sguardo infatti che viene e torna alla terra…

Franca: Sì, la terra è sicuramente un luogo legato alla morte e alla rinascita, all’essere seppelliti ma anche ai semi…un luogo legato alla metamorfosi anche al cambiamento. In questo libro spesso ci sono passaggi di forme tra umano e vegetale tra umano e animale e viceversa. Sicuramente ho cercato in qualche modo questa nudità di cui parla Milo De Angelis, un po’ come cercando di spogliarmi dai pesi ma anche dalle scorie che ci portiamo addosso per il dolore, i segni che ci lascia la vita, ma anche le cose che non ci appartengono, che ci lasciano gli altri, che non abbiamo scelto, per arrivare a una forma nuda, appunto, semplice, riconoscersi, ritrovarsi in questa forma e riaprirsi in qualche modo a cogliere la vita, a cogliere il passaggio delle cose proprio come anche nella poesia che apre il libro che è appunto questa immagine della scrittura come cucchiaio.

  

Franca legge un testo da Pasta madre

  

cucchiaio nel sonno, il corpo

raccoglie la notte. Si alzano sciami

sepolti nel petto, stendono

ali. Quanti animali migrano in noi

passandoci il cuore, sostando

nella piega dell’anca, tra i rami

delle costole, quanti

vorrebbero non essere noi,

non restare impigliati tra i nostri

 contorni di umani.

 

Veronica: Altro motivo di ispirazione sono gli animali. Sciami di insetti, formiche,uccelli. Sono loro a consegnarci gli indizi, ad insegnare ai nostri “contorni di umani” il volo, l’ampiezza, il ritmo, l’eredità della specie, loro che talvolta ci rimarginano.

Franca: Sì, gli animali sono molto frequenti. Ci sono insetti, ci sono cani, c’è un muso, appunto ci sono questi passaggi tra uomo e animale, ci sono formiche spesso. Gli animali credo che siano come prima un segno di resistenza della vita perché loro contengono questa sorta forza biologica che va avanti comunque. Loro che cercano continuamente cibo, che sono più attaccati in qualche modo a una forza vitale; mentre questo libro era partito in qualche modo da una crisi, da un non riconscersi più nei gesti semplici anche quotidiani della nostra vita che sono quelli di mangiare, di dormire, di compiere questi rituali che ci portano avanti, in qualche modo che ci salvano e però anche ci chiudono un po’. E quindi riguardare gli animali, ritrovarli era come avere una bussola, in qualche modo, riorizzontarsi un po’ nella vita. Però poi ripensandoci mi sono accorta che questi animali in realtà portano anche un principio distruttivo. Per esempio le formiche rosse velenose di cui parlo in un testo che discendono e salgono nel corpo sono anche qualcosa di incontrollabile, di irrazionale che ci attraversaE poi sono gli stessi animali che ci abiteranno quando il nostro corpo non sarà più in vita e che sarà un luogo di animali che continuano a vivere.

Veronica: Vorrei citare ancora Milo De Angelis che nella sua nota disegna con precisione la vena oracolare dei tuoi versi: La protagonista di Pasta madre non ha età. E’ bambina, vecchia, morta, fanciulla in fiore, sibilla, veggente, sposa, figlia, vedova, smarrita: si radunano in lei tutte le epoche e stagioni. E’ come se l’intimità con le ombre le avesse conferito un tempo assoluto.

Franca: Sicuramente ci sono molti fantasmi che mi hanno abitato, che mi abitano ancora e mi attraversano e ci sono nella realtà che racconto in qualche modo, in questo libro, come dei momenti di incubo anche, di percezione distorta tra la realtà e l’irrealtà. C’è per esempio una presenza anche amorosa e poi la sua assenza che apre appunto degli squarci di incubo, di dolore intollerabile, di una ferita che non si rimargina. E poi, sì è vero quello che dice Milo di questo mio non essere riconoscibile in un’identità precisa perché anche quando prendo la prima parola e dico io spesso in realtà questo io proviene dall’ascolto anche della storia di un altro, della voce di un altro. Per esempio la poesia che inizia “Ho lavorato con la morte nel cuore per un mese” in quel caso lì ho proprio riportato le virgolette perché sono due versi che mi ha donato insomma un’altra persona, che vengono dall’ascolto della storia di un altro. E quindi sì c’è anche questa confusione, questi confini, contorni umani labilissimi tra me e le cose, tra me e gli altri e sicuramente per questo posso essere vecchia e bambina, insomma queste diverse figure di cui parla Milo.

Veronica: Il brano che abbiamo ascoltato era Für Alina di Arvo Part. Volevo riportare un breve estratto di intervista rilasciato dallo stesso Part che dice: “Ho scoperto che è sufficiente una singola nota, suonata con grazia. Questa nota sola, o battito silenzioso, o momento di silenzio, mi conforta.” Tu della poesia hai parlato di ascolto. Si percepiscono in questo ultimo libro riferimenti al silenzio che precede la parola, al suo farsi lentamente linguaggio poetico. E qui ritorniamo alla domanda iniziale, a quanto già detto. Volevo allora entrare nel dettaglio. Che cos’è per te scrivere in versi? Ma soprattutto che cos’è l’attesa del suo compiersi?

Franca: Sì, un po’ come in questa immagine di pasta madre che intitola il libro. Ho questo sentire la scrittura e la poesia come una materia incompiuta, in qualche modo, anche anonima…la lingua che ci portiamo dentro, che viene da prima di noi, che viene da lontano, che è la lingua della tradizione, la lingua degli uomini che hanno sempre avuto…e questa forma che alla fine la danno gli altri, gli altri con il loro ascolto, con la forma, il senso che loro riconoscono da una stessa materia. So che le mie poesie a volte sono molto dense, a volte potrebbero sembrare oscure ed è proprio in questa densità che io cerco di concentrare diverse possibilità di vita, diverse forme proprio come la pasta madre che dona e rigenera, si rigenera in altre forme nelle mani degli altri. Un’altra immagine che sento molto vicina alla scrittura è questa sorta di agonia, una lotta. Perché come già in Mala kruna sento ancora che le parole si scontrano sempre con una barriera, con un limite che noi cerchiamo ogni volta di superare però questo limite c’è. L’immagine di cui parlo anche in un testo di questo libro, quella degli insetti che sbattono contro un vetro, vanno verso la luce, cercano un’altra dimensione, una sorta di libertà e invece trovano questo limite e continuano a sbattere contro il vetro finché non si accasciano inebetiti da quest’urto. Per il verso è questo tentativo di andare verso una liberazione, una luce, una dimensione diversa che starebbe fuori non so bene dove. E poi c’è anche questa idea centrale del cucchiaio, del raccogliere quelle che c’è, raccogliere il buio con le sue forme. Anche la poesia che conclude il libro per esempio è legata a questa idea dello scrivere con tutto il corpo. Mi ricordo che mentre scrivevo questo libro era presente in me molto questo pensiero che si scrive magari in cinque minuti anche se poi dopo ci si rilavora mesi e a volte anche ci si ritorna dopo anni, però è tutta la giornata con il suo peso, con le sue fatiche che è in quel momento nella scrittura ed è tutto il corpo che sta scrivendo in quel momento e così era nella notte sopratutto quando parla in noi qualcosa che forse nel giorno tace.

 

Franca legge un testo tratto da Pasta madre

 

dormivo su una pagina ogni notte

bianca. Il mattino

un’ombra del mio peso, alcune pieghe

subito voltava: proseguire

è questo a capo del principio,

bocca che passa calore

all’aria come potesse svegliarsi

essere ancora salvata.

 

 Veronica: E’ arrivato il momento di salutarci. Vi ricordo di Franca Mancinelli, Mala Kruna, edita da Manni e Pasta Madre, pubblicata da Nino Aragno editore. Per riascoltare la puntata e leggerne la trascrizione potete consultare il sito www.ilrubino.it e scrivere a info@ilrubino.it. Grazie a Franca.  

Franca: Grazie a te e agli ascoltatori.

Veronica: Grazie a Simonluca Laitempergher per tutta l’assistenza tecnica e un grazie a voi per averci ascoltate.