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Trascrizione puntata con Giancarlo Sissa II parte

21 dicembre 2013 at 17:24

Benvenuti sono Veronica Tinnirello e questo è Il Rubino, una trasmissione dedicata alla nuova poesia italiana. Oggi si terrà il secondo di due incontri con Giancarlo Sissa e ascolteremo: di George Gershwin un estratto da Rhapsody in Blue e Fandangos de Huelva interpretato da Carmen Linares.

Come già anticipato oggi parliamo di e con Giancarlo Sissa. Nato a Mantova nel 1961. Francesista, traduttore ed educatore, ha pubblicato come poeta: Laureola, Prima della tac e altre poesie ( prefazione di Giovanni Giudici), Il mestiere dell’educatore, Manuale d’insonnia, Il bambino perfetto. Attualmente sta lavorando ad una raccolta di prossima pubblicazione: La costellazione delle altalene. È presente in numerose antologie. Citiamo Il pensiero dominante, poesia italiana 1970-2000 (edita da Garzanti, 2001,a cura di Franco Loi e Davide Rondoni).

 

Giancarlo legge una poesia tratta da Laureola

 

E se avessi trascorso

l’infanzia a mordere fiori

nella nebbia adolescente,

in bicicletta o in attesa

al passaggio a livello tintinnante,

col gilè di lana e i calzoni corti,

o forse male ricordo, del resto

poco m’ascolti, tu sorso d’acqua

 

certo tu pure bevuta

con la gonna levata

al tempo che passa senza avvertire,

solo me ne accorgo guardando

i panni stesi in bianche fiamme

ai balconi serrati

non so come cosa, forse donne,

mie care donne, ti amo.

 

Veronica: Ciao Giancarlo, benvenuto.

Giancarlo:Ciao, Veronica.

Veronica: Laureola è stata la tua raccolta d’esordio. Giovanni Giudici, in relazione a questo libro, parlò di te come di un tenero poeta d’amore lontano da facili sentimentalismi. A sentire il titolo si potrebbe pensare a quell’alone di luce che santifica i corpi, ma invece, scoprendolo senza apostrofo, si viene a conoscenza che Daphne Laureola è una pianta sempreverde molto velenosa. Roberto Galaverni, fa notare poi come alla rima sabiana fiore-amore sia subentrata nelle produzioni successive quella di orrore-amore. Volevo approfondire questo binomio.

Giancarlo: Ho cercato di evitare in questo binomio gli “effetti Sanremo”, cioè appunto della canzone d’amore che fa rima con fiore, cuore eccetera eccetera. Tenendo presente un poeta molto importante, scomparso purtroppo una quindici d’anni fa, del secondo novecento italiano, vale a dire Ferruccio Benzoni e un suo verso contenuto nella raccolta Fedi nuziali, dove lui dice non esiste grazia senza l’orrore…Ecco che mi si è profilata questa rima facile e però suggestiva, quella dell’amore e dell’orrore che in fondo sono compagni di viaggio, compagni di strada, che servono a complicarsi a vicenda, in un modo ricco e non inutilmente difficile o complesso. È bene che gli opposti e i contrari e le distanze restino comunque sempre in contatto questo aiuta a ridurre le certezze. Non esiste un amore certo, non esiste un orrore definitivo. Questo è il continuo movimento della vita. La poesia cerca di restituirlo.

 

Giancarlo legge una poesia tratta da Laureola

 

Pont-Neuf

E cosa importa si porti vino

a un tavolo dove non se ne beve

solo lettere scriviamo e malaccorte

ma vere come il bere del mattino

o nebbia la nebbia che si porta

altrove le parole – ma lo fa piano –

come a notte la tua mano cioè

quel posto dove riposo e amo

 

e solo lettere scriviamo e malaccorte

– o notte – ma le scriviamo forte

 

così a lungo io t’ho aspettata

fino al che saremo un’altra cosa

o quella semplice che non sappiamo

– carezza senza morte – sul Pont Neuf

la luce nella neve era rosa

 

Veronica: Abbiamo ascoltato un estratto di Rhapsody in blue, brano composto da George Gershwin nel 1924, una fantasia sonora ispirata dalla New York di quegli anni. Come mai hai scelto questo pezzo?

Giancarlo: Ho scelto questo pezzo perché appartiene alla mia giovinezza. Gershwin mi ha sempre colpito per la genialità, per la sua straordinaria capacità anche di interpretare se stesso e poi perché è unaltro di quegli elementi che in ambito jazzistico ma non soltanto, come l’altra volta, nella scorsa puntata abbiamo parlato un attimo di Baudelaire e di Rimbaud, di rottura rispetto ad un orizzonte d’attesa abbastanza consolatorio forse anche pacificato, un po’ da operetta. Lui introduce elementi di grande modernità e di grande inquietudine risolti in un capolavoro assoluto della musica del novecento come Rhapsody in blue. E poi mi ricorda quando ero più giovane, quando ero ragazzo, ascoltavo queste cose un po’ strane con gli amici. Ci piacevano tanto, ci aiutavano ad innamorarci.

Veronica: Usi spesso la rima. Sempre Galaverni ti definisce un melodista. So che oltre a Giudici, tuo maestro di cui ne Laureola leggi e rileggi La vita in versi, D’Elia, Benzoni, Penna, Caproni, sei un grande lettore e ascoltatore della canzone d’autore. Per esempio, ti ho sentito spesso citare Piero Ciampi. Qual’è il tuo rapporto con la musica e che ritmo cercano i tuoi versi?

Giancarlo: Il mio rapporto con la musica è un po’ difficile, devo dir la verità, perché la musica la vivo in modo molto pericoloso. Sono molto sensibile alla musica, alla canzone. Possono cambiarmi l’umore per una giornata, in modo devastante. Mi mettono in pericolo. Mi sento vulnerabile, fragile, piccolo. Questa è una dimensione che aiuta a riconsiderarsi da un punto di vista dell’umiltà e quindi mi interessa molto, mi piace…però dall’altra patisco a volte. Non voglio esagerare. Credo che non succeda solo a me, a me succede con una particolare intensità. Però la amo molto perché la musica è davvero bella. È qualcosa che risuona in noi dall’inizio, prima ancora della voce, prima ancora ti tante altre cose. Quindi in un certo senso è anche qualcosa a cui tornare, da un punto di vista anche archetipico. Poi in Italia noi abbiamo una grande tradizione di canzone d’autore che per certi aspetti ha supplito ad alcune non lievi e non di poco conto mancanze della produzione poetica. Nel senso che, a un certo punto, a partire dalla vittoria della neoavanguardia quando la poesia si fa più da laboratorio, meno vicina alla quotidianità delle persone, il suo posto è come se venisse in parte preso dalla canzone d’autore e dai cantautori. Ne abbiamo moltissimi, grandissimi. Alcuni poeti “in proprio”, altri come Lucio Dalla, grandissimo Lucio Dalla, che hanno prediletto la poesia e la collaborazione con grandi poeti come Roberto Roversi. E quindi, in un certo senso, la musica e la musica cantata, la parola musicata mi appartengono, un po’ come generazione, culturalmente. E mi sono riconosciuto a mia volta in questo modo di scrivere. Io non mai scritto canzoni, non ho mai scritto per musica. Ma mi sembra di poter dire che nei primi libri, sopratutto, la musica c’è nel verso. Diventa un verso cantabile, riconoscibile e la rima è il primo motore di questa cosa.

 

Giancarlo legge un testo tratto da Manuale d’insonnia

 

Torino, Eva Yerbabuena

ancora a Valentina 

Mi chiedi se posso…fare cosa?

dire se il corpo piange un buio

che spacca in cuori il canto?

pioverà la notte, ma intanto

questa donna è un ventaglio

che batte il suo alfabeto

sui fianchi del pianeta – o nella sera il taglio

e sangue la sua seta

se le tuona in petto

chissà che mare –

ombra che dalla terra stacca

e prende a ballare – colomba

di duende – che non sa riposare

o l’anima che dal nero sorge – così dev’essere

sapersi tempo senza

precauzione e il seno

sporge a un suo balcone

ideale di fame, di miniera, di gioia

furibonda…da giovane cane

o nera onda “ed ecco il mio esercito”

di palmas e di bicchieri – in marcia nel buio dei misteri

che batte batte batte la paura

e la disdetta d’uno sconosciuto

ieri – o segni di carbone

accesi ad ogni passo nella notte

di Torino – smarriti come a un sogno

gli occhi di un bambino – perché

qui ammala la perfezione e si dispera in devozione

– qui si fanno insulto silenzio

e redenzione e solo guarisce in pianto

il canto la sua passione –

e sta come in uno specchio

l’arcana pena e accoglie

fiori e frutti nella gonna

che avvelena – farfalla o mariposa che rapisce

l’invisibile incontro della sposa

santa con l’impossibile che tace

e canta – e no, io non posso…

la perfezione non la so davvero

raccontare, tu meglio di me

l’hai fatto, che per amore

ti sei lasciata attraversare.

  

Veronica:Nel titolo di questa tua poesia citi Eva Yerbabuena, una delle più grandi “bailaores” del flamenco internazionale. In origine il flamenco era crudo canto, chitarra e danza si aggiunsero solo in seguito. Federico Garcia Lorca fu tra quegli intellettuali che si batterono per farlo riconoscere come una forma d’arte. Ci è riuscito perché oggi è un Bene protetto dall’Unesco. Nei testi ci sono riferimenti costanti alle tradizioni, ai valori della vita, alla sofferenza dell’emarginazione, al malessere esistenziale, al carcere e al mal d’amore.Sono temi che appartengono anche al tuo percorso poetico. Nei tuoi testi parli del disperato appassionarsi alla cicatrice. Come è nata questa tua passione “gitano-andalusa”?

Giancarlo: Al flamenco mi ha introdotto in qualità di aficionado, non di musicista né tantomeno di bailaores, Valentina, una persona per me molto importante. E del flamenco mi sono innamorato e per quanto possibile, non essendo un musicista, occupato più da un punto di vista testuale, poetico. Il flamenco è tante cose. È una filosofia di vita per chi lo vive interamente, davvero, quindi per larga parte della popolazione andalusa. È un’arte complessa, stratificata nel tempo, nel corso dei secoli. È un’arte che testimonia la possibilità di popoli anche molto distanti però di incontrarsi, di convivere in uno stesso territorio, di creare assieme appunto stili musicali, canti e non solo. E quindi mi ha affascinato da subito anche per la forza enorme e un po’ buia, un po’ incendiata che porta con sé. L’origine ne é il canto, come tu dicevi, un canto povero, un canto disperato di voci sanguinanti. Quindi qualche cosa molto vicino all’intensità primordiale della poesia o quasi

della tribù che da itinerante si fa stanziale e lì canta il suo dolore, la sua malinconia, la sua nostalgia della vita. Quanto a Eva Yerbabuena che ho avuto il privilegio emozionantissimo di conoscere di persona e che mi ha invitato a leggere prima di un suo spettacolo questa poesia a Bologna…Posso dire che è una persona di semplicità geniale. Intanto forse non molti sanno che è figlia di immigrati. È nata in Germania poi è tornata in Spagna, in Andalusia e lì un po’ anche contro il volere della sua stessa famiglia ha ballato il flamenco. Quindi sfidando un po’ tutto, anche la sorte avversa, fino a diventare io credo, dopo la morte di Antonio Gades, la massima interprete al mondo di quest’ arte. È una persona di una dolcezza, di una semplicità, di una gentilezza, di una disponibilità all’incontro con le altre persone assolutamente straordinaria, ammirevole. Sono onorato anche solo di aver potuto pensare di dedicarle una poesia, a lei e a Valentina che me l’ha fatta conoscere… questa poesia.

Veronica: Questa era Fandangos de Huelva cantata da Carmen Linares. Ne Il bambino perfetto, tuo libro più recente,parli del silenzio come il più vile strumento del potere, l’altra faccia della paura, somministrato in quegli anni d’eroina. Scrivi anche di un silenzio dell’inferno che si genera nel punto indefinito di buio e luce/ minuscola voragine del sempre. Volevo sapere, da poeta, quali sono le volte che ti sei riconciliato con questa illusoria assenza di suono.

Giancarlo:Direi che io distinguo almeno due accezioni della parola silenzio. C’è un silenzio colpevole e tremendo che è quello di chi tace la verità o di chi tace ciò che l’altro avrebbe diritto di sapere, ad esempio. E non è che in Italia presentemente manchino gli esempi. Sorvoliamo ma a tutti ne viene in mente qualcuno. Questo per quanto riguarda la sfera pubblica, ma ognuno sa da sé ciò che lo riguarda anche nel privato. E questa dimensione della parola silenzio mi è sempre sembrata particolarmente vile perché è un modo di non mentire, o meglio di mentire senza mentire, quindi oltretutto spregevole, senza nemmeno esposizione a rischio di essere sbugiardati. È un silenzio colpevole, complice, giudicante, tremendo. E poi c’è invece un’accezione estremamente positiva, che è precisamente quello che credo ci manchi di più in assoluto, che ne siamo coscienti o meno.L’inquinamento acustico delle nostre città è spaventoso. Magari non ci facciamo più caso, ma ormai è davvero così. Un caro amico, un traduttore che è venuto a trovarmi da Praga qualche tempo fa, amando molto l’Italia e Bologna, città nella quale aveva studiato l’italiano in gioventù e nella quale di tanto in tanto torna, registrava negli ultimi anni il fatto che lui che non riusciva più a parlare per strada con chi si accompagnava con lui in una passeggiata. In effetti si fa una gran fatica a sentirsi. Il rumore è ovunque. Diciamo così, il rumore è un suono sgradito, non è un suono bello. Io non credo che il silenzio o che il suono siano una questione quantitativa, dovrebbe essere qualitativa. Questo costringe un attimo a fermarsi, a fare silenzio per ascoltare meglio se stessi e i suoni che si producono.

 

Giancarlo legge una poesia inedita tratta da La costellazione delle altalene

 

Dalla sezione Andaluse

 

Il silenzio del patio

 

 

Il silenzio del patio semplicemente è tale

per migliaia di chilometri di pace e di cicogne

come un insistere di onde senza suono lungo il viale

e negli occhi macchie di deserto, stanze

piene di libri in mare aperto

 

sono lontane le parole accese a notte in osteria

Montesino – solo l’amore necessario e quel poco

di compagnia … maestro, poeti, atleti del fallimento

e della bottiglia infranta controvento sulla chiglia

dell’arca del miraggio

 

ora siamo in viaggio nella carezza ardente

del cielo d’Andalusia – qui convocando i cari

dispersi in grida di rondini e afflitte migrazioni –

sai ancora le parole inutili delle canzoni?

il caldo buio del troppo vino?

 

respirando l’oceano mi ripenso bambino, ascolto

il grande e vuoto fuoco delle madri cantando …

la leggenda del tempo o la pietra rotolante

nella marea – muore un poeta e ne nasce

un altro, ma perso a un nuovo altrove

 

altre parole senza prove – via del Pratello,

calle Molineros, il nostro assente movimento

o la statua di Lola Flores, ma il vento è contento

a notte nel patio tale quale pieno di fiori colori

senza il nero

nostro dentro pieno di fuori.

 

Giancarlo: Se posso aggiungere una cosa…direi soltanto che questo testo è una piccola anticipazione che vorrei regalarti dalla prossima raccolta e che si chiamerà La costellazione delle altalene e che ti ringrazio davvero tanto di avermi dato la possibilità di leggere, di raccontare.

Veronica: Grazie Giancarlo. Grazie a Simonluca Laitempergher per tutta l’assistenza tecnica e un grazie a voi per averci ascoltati.

Trascrizione puntata con Francesca Serragnoli II parte

16 dicembre 2013 at 16:17

 

Benvenuti, sono Veronica Tinnirello e questo è Il Rubino, una trasmissione dedicata alla nuova poesia italiana. Oggi proseguiremo la seconda parte dell’incontro con Francesca Serragnoli, nata a Bologna nel 1972. Ha lavorato presso il Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna. Suoi testi sono apparsi in numerose antologie tra cuiNuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004). Ha pubblicato le raccolte Il fianco dove appoggiare un figlio e Il rubino del martedì entrambi editi da Raffaelli editore. Collabora con la rivista ClanDestino.

 

 Francesca legge una poesia tratta da Il rubino del martedì

 

 

Volevo che la tua notte

rimanesse con la mia

che tu sporgessi piano dal lenzuolo

come un’alba che rimane continuamente

il primo gesto

di luce nel mondo.

Avrei raccolto da terra

il sole che ti cade dal viso

da quel sorriso eroso dal vento

che scende a picco sul mare.

Nei tuoi occhi andavano e venivano

le rondini, per posarsi

come quando le palpebre fanno

quel rumore di ali che si aprono.

 

Volava via invece il tuo profumo

sepolto nei luoghi

che solo il cane

che abbaia al vento conosce

 

Così ti penso

una serata blu

che stringe gli occhi fino a sparire

e subito bianca

una luna a cinque dita

che mi tiene il mento

e mi guarda.

Veronica: Ciao Francesca benvenuta a questo secondo incontro con Il Rubino.

Francesca: Buongiorno.

Veronica: Il Rubino del martedì è la tua seconda raccolta. La prima sezione cita Marcellino pane e vino, racconto e poi film in cui il protagonista è un bambino abbandonato che verrà accolto e allevato da una comunità di frati. Quando Marcellino nella soffitta del convento trova un grande crocifisso trova un amico di cui prendersi cura, con parole, cibo, coperte, presenza. Ora, rispetto alle assidue seduzioni dell’io de Il fianco dove appoggiare un figlio e di cui abbiamo parlato nella puntata precedente, questo tuo libro guarda in modo molto più ampio all’altro. Esplori molte solitudini. Che cosa è cambiato nel tuo sguardo?

Francesca: Effettivamente c’è un cambiamento. Rispetto alla prima raccolta credo di aver trovato, per rimanere dentro l’immagine del film Marcellino, quel movimento della statua. Non so se avete presente quando Marcellino porta per tanto tempo del pane a una statua? Questa immagine mi era rimasta nella mente perché la vita è un po’ così. A volte uno passa la vita a portare del pane a una statua nell’attesa che la statua faccia un movimento. Il portare se stessi davanti a qualcuno credo che sia, diciamo così, un dono bellissimo e allo stesso tempo occorre però attendere che questa statua abbia un movimento. Io credo che questa nuova raccolta mi abbia permesso di constatare questo movimento appunto e io credo di averlo visto in varie realtà che poi magari ci sarà occasione di leggere. Credo anche che sia la carità e la misericordia che ognuno cerca. Si deve vincere? Che cosa? Per farla breve, per essere sintetici, quell’ombra che ci segue e che segue tutto e che è la morte. Per questo ho scritto in una poesia Gesù come un pusher ci guarda con la roba che spezza la morte. Questa è stata l’attrazione fondamentale che a me ha fatto la differenza nella storia e nella mia storia. E poi ho scritto anche che il nulla non lo vuole nessuno, l’eternità uno desidera sentirsela addosso e bisogna sfondare quel muro e la realtà è la nostra strada, la nostra via. Il rapporto con Marcellino mi ha permesso di riassumere tutto questo movimento.

 

Francesca legge una poesia tratta da Il rubino del martedì

Eccola arrivare

con le caviglie storte di un uccello

che va a prendere la comunione.

E quel vecchio come si chiama?

Si chiamerà Primo?

Con l’occhio destro tutto rosso…

e quella con la calza elastica

che si gira con l’ostia in bocca

e rompe la fila

strisciando via le pantofole.

Ma quando arriveranno dall’altra parte

senza capelli, con la dentiera che scossa,

quando moriranno e qualcuno ci pensa

con quel fiato corto corto

che arriva fino alla sedia

e dice le preghiere, che chiama.

Cos’è il paradiso?

che lei si senta chiamare: Giuseppina!

e la vedo allargare le braccia secche e consumate

Sgnór, a t’aspitéva, a so sté tant mél

a j o sufért tant pr e’ mi bastérd!”

Al sò al sò, u t’ fa ancóra mél la gamba?”

No adès no, adès a stagh propri ben.

A pòs sté cun tè? A t’ voj ben Sgnòr”

Svanì!”

Sgnòr!”

Sét ch’a j aveva mél a un òc, mo adès l’è pasé;

a pòs stér a què a sédar? A voj aspité Primo, e’ mi amìgh”.

Chi mi dice che non sarà così?

Che il Signore non parlerà in dialetto

che mio zio, che aveva solo noi cinque al funerale

non incontrerà il Signore

che gli chiede “Enzino,

vieni qui, raccontami del cane da trifola”.

Perché Giuseppina, Ugo, Rina, Primo

quei vecchi dal nome facile

non possono parlare con Dio

come si fa quando si prega?

Il nulla non lo vuole nemmeno

il cane che abbaia al vento

perché anche l’odore

promette un senso.

Veronica: Abbiamo ascoltato di Lucio Dalla, Cara. Come mai questa scelta?

Francesca: È una scelta molto bella per me. Io non ho mai avuto occasione di conoscerlo personalmente. Poi è capitato per varie vicessitudini che mi fosse chiesto da Marco Alemanno una poesia per il suo libro, il libro che è recentemente uscito sulla loro storia. Questo mi ha riempito di gioia perché essere vicini a qualcuno attraverso una poesia penso che sia la vicinanza più intima possibile e questo è stato possibile solo in un secondo momento. Pazienza. Però mi ha riempito di gioia.

Veronica: L’uso della lingua poetica in questo libro non dimentica la capacità di tessere immagini e metafore. Ci sono un tono più colloquiale, inserti in dialetto romagnolo, come quello dei due anziani nell’aldilà che parlano con Dio. Le voci dei personaggi che tu tratteggi mi hanno fatto pensare a quella modalità tutta felliniana di orchestrare lo stupore e la malinconia della sua Romagna. Ma questa è una associazione tutta mia…Cosa è maturato nel tuo linguaggio e come mai hai inserito il dialetto?

Francesca: Allora forse potrei dire che nel mio linguaggio non è maturato mai niente, per riassumere. Nel senso che ciò che si affina, ciò che matura a mio parere non è mai il linguaggio, ma la lettura della realtà, l’intuizione poetica, quella balbettante eroica fusione fra ciò che si è e la realtà che ci ha colpito. Da quel mixer emerge forse più chiara la vita. Non è scontato che questa si evolva sempre in meglio, di conseguenza non c’è linguaggio che lo sostituisca. Il linguaggio è teso a questa creazione. Intendo dire che può essere anche povero ma rende l’idea. La forma della poesia non è solo il suo linguaggio, non è solo una misura. È qualche cosa che oltrepassa i limiti delle parole. Il linguaggio e la forma sono strumenti di liberazione del senso poetico. La testimonianza di questo credo che sia evidente quando leggiamo poesie di esperti di linguaggio, docenti universitari, critici, linguisti eccetera che scrivono poesie, mi sia permesso dirlo, mediocri, correttissime dal punto di vista della lingua, ma mediocri. Quindi è evidente che manca quel senso poetico che quando c’è anche con due parole si fanno, come si dice, si fanno le nozze coi fichi secchi. E poi non si è mai soddisfatti. La lingua è sempre in tensione, non si è mai soddisfatti, come diceva Ungaretti delle sue stesse parole. Sostanzialmente la coperta del linguaggio è sempre corta, finita e allo stesso tempo infinita. Si potrebbero su questo aggiungere tantissimi dettagli. Potremmo parlarne per un minuto o per giorni, io preferisco parlarne per un minuto perché poi sull’infinito bisogno percepirlo, il finito è quello che c’è…parlare del linguaggio sulla poesia è come spiegare il volto di qualcuno facendo vedere il volto di qualcun altro

 

Francesca legge una poesia Il rubino del martedì

 

Questa mattina ho visto i matti

scendere dal pulmino bianco

accompagnati come bambini in gita

una donna con la berretta

un signore con il riporto pettinato

che paura quei visi!

s’illuminano per un niente

presi per mano hanno

lo sguardo dei figli

puntano il dito su tutto

sole d’ottobre che scende

su donne senza trucco

risate acute come spade

li ho salutati come si salutano i bambini

facevano ciao con la mano

mani che vedo dietro di me

salire nel cielo come quaglie

e svanire lasciandomi

la prima amicizia del mondo che è l’aria.

 

Veronica: Questa era Tu si una cosa grande per me di Domenico Modugno. Cosa ti lega al brano che hai portato?

Francesca: Direi la bellezza. Quello di cui abbiamo parlato la scorsa volta. Quelle misteriose canzoni che uno ascolta e riascolta e che indicano più in là come indica nello stesso modo qualche altra occasione che sia nella vita di bellezza. E uno sta in silenzio e ascolta. Il commento alla bellezza è il desiderio di rivederla e questo è credo ciò che spinga l’uomo a tirare avanti. Qualcuno disse: a che cosa servono le cose belle? La bella canzone, il bel palazzo, la bella poesia, la bella persona? A che cosa servono? A non cadere nella disperazione. Questo mi ha suscitato tante riflessioni perché effettivamente uno pensa che in tempi di crisi occorra prima di tutto mangiare, avere una casa. Poi però ciò che non fa cadere nella disperazione è la bellezza…È un po’ in contrasto, io lo lascio, questo contrasto, lì, così.

Veronica:Cosa c’è tra un libro e l’altro?

Francesca: Bella domanda. Uno potrebbe rispondere (sorride) ci sono delle vacanze. In realtà tra un libro e l’altro c’è molta stanchezza, un po’ di senso di vuoto, senso di non aver fatto nulla, di aver fatto poco o niente. Quello che c’è, che è più pesante da sopportare è il fatto di non aver la certezza di poi farne un altro perché chiaramente la poesia non è una catena di montaggio. È qualche cosa di assolutamente…uhm…dove c’è volontà ma c’è anche quella che in un certo linguaggio si chiama grazia e che io comunque chiamo grazia allo stesso modo non con un uso analogico, ma proprio in quel senso lì. Occorre la volontà e occorre anche la grazia. Credo che la cosa più dura da sopportare sia questo. Poi ci sono gli uffici stampa, le presentazioni, tutto quello che riguarda la promozione di un libro perché è giusto che uno si prenda la responsabilità di quello che ha fatto, di quello che ha creato e che cerchi di farlo poi proseguire con le proprie gambe però occorre prima un pochino attivare quella piccola e a volte triste catena di diffusione eccetera.

Veronica: Nella scorsa puntata hai citato Mario Luzi…regalaci altri incontri, dal vivo o letterari che hanno significato molto per te.

Francesca: Istintivamente risponderei questo che gli incontri in poesia come in altro ambito…adesso parliamo di poesia, se io facessi la commercialista e tu mi facessi la stessa domanda io dovrei citare dei commercialisti che ho incontrato a qualche convegno. In questo caso io mi limito e mi interessava dire soprattutto questo, che gli incontri che io ho avuto la fortuna di avere in questi anni con tantissimi scrittori e poeti…ecco quello che ha fatto la differenza è l’umanità di queste persone. Sembra banale dirlo o sembra una specie di ritornello per riassumere un’immagine di una persona magari gentile, cordiale.Invece no. Io credo che questa bellezza umana che ho avuto appunto la fortuna di conoscere derivi anche dall’educazione che ha portato la poesia. Cioè chi legge testi altrui e chi legge i propri testi viene in un certo qual modo educato. Perché dovremmo leggere poesia se non fosse un bene per il proprio cuore, se non fosse un’educazione per il proprio cuore? A che cosa? A essere più umani. Io credo che noi non leggiamo poesia come a scuola per aiutarci ad approfondire l’aspetto linguistico oppure a sapere quali sono le metafore. Quindi io la penso in questo modo. Le persone che mi hanno colpito sono quelle che mi hanno educato alla poesia in questo senso. Uno è invitato attraverso l’umanità della persona che ha incontrato poi ad approfondire tramite i testi. Questo è evidente. Va da sé che poi ci siano magari persone che abbiano scritto dei capolavori e che non abbiano un buon carattere. Tra i poeti che ho conosciuto, adesso l’ultimo che mi veniva in mente è Titos Patrikios, grande poeta greco. Lì è inevitabile parlare di grande umanità, di questo viso che ha passato la vita insieme alla poesia. Certo, grandi dolori, grandi emozioni, grandi gioie però sempre con questo sguardo poetico. Questo sguardo poetico fa un pochino la differenza perché permette di vedere tutti i lati quindi dà anche una serenità. Quando la gioia è vera gioia, si guarda anche il dietro della gioia. La poesia è anche questo, quando scrive non dimentica nulla. Non è la canzone che ti fa dimenticare per un attimo tutto il resto della tua realtà, dolorosa, faticosa. La gioia della poesia è una gioia inferiore, si grida meno, si ride meno però è veramente molto più profonda e molto più vera.

Francesca legge una poesia tratta da Il rubino del martedì

 

Ci vorrebbe proprio tutto

il tempo di cucire un bottone.

Quel fermarsi

in quel punto della camicia

su e giù con l’ago

e il filo lungo che va in alto e scende.

Quell’andare al di là e tornare, basterà?

 

Il viaggio di una madre

il puntino luminoso della sua mano

che dal cielo scende

e sale un filo che fra le dita

sembra attraversare niente.

 

Io ti avevo stretto la mano

nella panca della chiesa dei Servi

sentivo che piangevi

non sapevo come ricucire

il fiore sdraiato del tuo respiro

con tutte quelle radici al vento.

 

Veronica: E’ arrivato il momento di salutarci. Ricordo il libri di Francesca Serragnoli: Il fianco dove appoggiare un figlio e Il Rubino del martedì entrambi editi da Raffaelli editore. Se volete riascoltare la puntata o leggerne la trascrizione potete consultare il sito www.ilrubino.it e scrivere a info@ilrubino.it. Grazie Francesca.

Francesca: Grazie a voi.

Veronica: Grazie a Simonluca Laitempergher per tutta l’assistenza tecnica e un grazie a voi per averci ascoltate.

Trascrizione puntata con Francesca Serragnoli I°parte

25 novembre 2013 at 13:29

 

Benvenuti, sono Veronica Tinnirello e questo è Il Rubino, una trasmissione dedicata alla nuova poesia italiana. Oggi parleremo di e con Francesca Serragnoli, dei suoi due libri Il fianco dove appoggiare un figlio e Il rubino del martedì entrambi editi da Raffaelli Editore. E ascolteremo i brani musicali scelti da Francesca: di Keith Jarrett, un breve estratto da Concerto a Colonia, parte I e di Lucio Dalla, Chissà se lo sai.

Come già anticipato oggi incontriamo Francesca Serragnoli, nata a Bologna nel 1972. Ha lavorato presso il Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna. Suoi testi sono apparsi in varie antologie tra cui Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004). Ha pubblicato le raccolte Il fianco dove appoggiare un figlio e Il rubino del martedì con Raffaelli editore. Collabora con la rivista ClanDestino.

Francesca legge una poesia tratta da  Il rubino del martedì

 

L’occhio ti avrebbe perso un giorno di marzo

sciolto il collare nel vento, nell’onda

come si perdono i transatlantici

e si rimane con le funi nelle mani

con quei cartelli con il nome

agli arrivi in casa, sulla porta

come se volessi portarti ancora

fra i tavoli e le sedie

la tv il letto, un viaggio stretto

con vuoti d’aria, la voce aggrappata

a un cornicione, strappata

un cadere nel tempo ti volta

un bacio breve stappa il primo ridere

divento uno spumante da quattro soldi

una canzonetta della radio, un balletto

brucio il libretto di poesie, le pagine

per guardarti il volto illuminarsi

e quella fiamma arresa, scesa sulle ginocchia

ricomincia a toccare l’andare a capo dei lineamenti.

Però non so ancora cosa s’inventa

cosa si fa per far ridere i bambini.

Veronica: Ciao Francesca, benvenuta.

Francesca: Ciao

Veronica:Il fianco dove appoggiare un figlio, tuo primo libro edito nel 2011 si compone di una parte apparsa nel 2003 sulla collana “poeti di clanDestino” e di testi aggiunti successivamente. Marco Antonellini nella sua prefazione alla raccolta afferma che questa scelta è la testimonianza di un’opera che continua nel tempo e che non vuole e non può conoscere pause. Tutto il libro risulta infatti compatto, omogeneo. Qual’è stato il percorso nel tempo di questo lavoro?

Francesca: Dunque è stato un percorso per me lungo e pieno di dubbi. Su che cosa? Sul mio valore. Cioè pieno di domande sul senso di quello che stavo facendo. Se posso permettermi di citare il Vangelo, c’è scritto che risponderemo di ogni parol a pronunciata dalla nostra bocca, in poesia questo credo che non cambi, anzi venga dilatato. Per il primo libro ad esempio andai a cercare una sorta di benedizione dal poeta Mario Luzi con grande gioia per averlo potuto incontrare e conoscere. Cercavo appunto da lui che cosa? Una conferma per andare avanti. E lui cosa mi disse in questa occasione? Tu puoi vedere la realtà diversamente da come la vedi?Puoi sentire la realtà diversamente da come la senti? Io non potrò mai dirti di smettere di scrivere perché lo scrivere è questo: sei tu davanti alle cose che ti accadono. Che tu le scriva o che tu non le scriva rimane sempre il tuo io, il tuo essere, il tuo esistere. Mi tranquilizzò molto…una piccola approvazione sui testi, ebbi anche quella e quindi continuai. Ah, e poi mi disse anche un’altra cosa: Quand’è che un libro è finito? Parole di Mario Luzi: quando tutte le foglie sono cadute. (Ride) Adesso è chiaro, tutto molto più chiaro! Devo dire la stessa indecisione di allora, rimane anche oggi, non è cambiato di una virgola perché scrivere non te lo ordina nessuno, non è obbligatorio, non è una missione, uno può farlo e non farlo. E quindi c’è tutto il dramma di scegliere se creare qualche cosa o non crearlo e fra creare qualcosa e non crearlo c’è un abisso.

Francesca legge una poesia tratta da Il rubino del martedì

C’è chi

quando è contento

lava anche tutti i piatti

e ci sta tutta la sera

girato di schiena

sul lavello

perché un sorso di felicità

muove tutto il corpo

e ognuno balla come sa.

La gioia è un ospite

che accende il ridere

come si accende un cerino nella notte.

Anche gli astronauti si voltano.

Veronica: Questa canzone era  Chissà se lo sai di Lucio Dalla. Sylvia Plath, una delle icone della poesia confessionale americana anni ’50 a proposito dell’esperienza autobiografica nella sua poesiascriveva: La scrittura è necessaria alla sopravvivenza del mio spocchioso equilibrio come il pane per il corpo. […] Ho bisogno di scrivere e di esplorare le profonde miniere dell’esperienza e dell’immaginazione, far uscire le parole che, esaminandosi, diranno tutto..[…] In questa tua opera prima, parliamo sempre de Il fianco dove appoggiare un figlio, la tematica autobiografica è piuttosto marcata. La scrittura diventa un elegante centro di esplorazione in cui la prima persona è decisiva. Eppure non manca il costante riferirsi all’altro, un tu. Al lettore sembra di entrare nella tua storia, di guardarti e crescere con te…

Francesca: Sì su questo punto ho riflettuto molto e rifletto sempre ancora perché le risposte non si danno una volta sola e poi si chiude. Continuano, per fortuna perché uno le risposte le riempie di tutto quello che poi successivamente legge, conosce, soprattutto anche grazie alle persone che uno ha la fortuna di conoscere. Comunque nel mio primo libro certo io ho citato quasi volontariamente e non ho eliminato quasi volontariamente tutte le poesie con la parola io, io, io, io perché sentivo come tradimento di non essere, di non rispettare quello che mi suggeriva la mia poesia in quel momento. La questione vera sicuramente non è quella di eliminare il prioprio io. Perché è impossibile. La poesia nasce lì. Come fai a eliminare te stessa, l’intuizione poetica, la conoscenza del mondo? Nasce tutto all’interno del proprio io, della propria soggettività, interiorità personale, privata, unica che uno riconosce nel momento in cui non solo scrive ma si approccia alla realtà. Viene tutto filtrato da questo, non in maniera consapevole ma dentro un abisso che noi non conosciamo e che emerge a volte grazie alla poesia quindi al poetico che non è solo nella poesia ma in tutte le arti, secondo me. Poi parlare di sé come la vedo io? La vedo cone un donarsi. Poi per proseguire questo discorso che sarebbe ampio, ampio, ampio, ampio e forse anche tedioso io posso terminarlo qua ( ride ). Così non tediamo nessuno.

Francesca legge una poesia tratta da Il fianco dove appoggiare un figlio 

 

La bellezza è una droga

ne nasci dipendente

il corpo è un bivio

dove speri d’incontrare

l’universo e metterci un dito dentro.

 

La stellata di una notte

vorresti fosse un disco

da ascoltare ogni volta

che il buio avvelena.

 

Quando suoni sembri il pennarello di un bambino

un azzurro a scatti

risali da ogni nota

come un dio mischiato al vino

al tavolo dove abbasso la testa e la fame

 

quell’azzurro è una bugia

o una chiave

che gira di colpo la testa

e la vita ha la foglia più curva

molto più trasparente della morte.

 

(ascoltando Miles Davis)

 

 

Veronica:Definisci la bellezza una droga. Quali sono i suoi effetti collaterali, se ce ne sono, in materia poetica?

Francesca: Della bellezza se ne dovrebbe parlare per anni, per tutta la vita. Cerco di restringere in questi pochi minuti (ride) qualche cosa. Ciò che è bello non è che sazzia, non è che riempie, ma in un certo qual modo fa risorgere. Fa risorgere l’anima. Nella vita, a volte, oggi soprattutto sembra che la bellezza sia qualche cosa di inutile, qualche cosa in più. Per citare un autore a me carissimo, un teologo ortodosso, Olivier Clément quando parla della rosa dice…non mi ricordo la citazione a memoria, non l’ho scritta…la rosa buca lo spazio e va verso che cosa? Verso quale altrove? È qualche cosa di gratuito, di inutile. Eppure ci si interroga su questa rosa, ci si interroga, la si guarda. La poesia credo che sia un esempio del contrario, nel senso non la bellezza è inutile, la bellezza è l’unica cosa che conta. Dire così sembra quasi che uno si debba comprare un diamante domani oppure non so che cosa. No,no, la bellezza è quella di cui uno si accorge camminando per la strada o facendo qualsiasi cosa che deve fare. Credo ci sia per tutti, che sia un qualche cosa di democratico e parlo anche di chi ha esperienze assurde, dolorose, impossibili. Credo che tirare avanti derivi anche da un segno di qualche cosa che permette…da un pertugio…La bellezza è una specie di pertugio, di crepa in quel nero che si vive purtroppo magari per i motivi più diversi. Dostoevskij diceva, questa citazione me la sono segnata: La bellezza è il campo di battaglia dove Dio e il Diavolo si contendono il cuore dell’uomo. Quindi bisogna guardarci bene alla bellezza, a questo fulgore non solo estetico ma anche intelligente, perché la bellezza è anche intelligente, che raccoglie i nostri sguardi. Mi permetto di aggiungere che è una prospettiva infinita, giusto per riassumere. Non sto parlando di chi ha fede o non ha fede. L’importante è che questo segno rapresenti l’infinito

Veronica: Abbiamo ascoltato un estratto del concerto a Colonia di Keith Jarret. Che cosa ti lega al brano musicale che hai portato?

Francesca: Beh, intanto che è bellissimo. Ti sembra di andare incontro al meraviglioso senza mai catturarlo, come sempre e mi fa capire che vogliamo ciò che non conosciamo, che dobbiamo seguire i segni di quello che non conosciamo nel mistero della musica, anche, soprattutto. La musica vera chiaramente, dico una banalità, è una musica che non distrae ma attrae. Sono convinta che questo sia un esempio di ciò che non è un lamento desolante, non è un vicolo cieco perché l’arte non è mai un vicolo cieco, semmai una nostalgia devastante e non è mai un muro.

Francesca legge una poesia tratta da Il fianco dove appoggiare un figlio)

 

Non avere paura

le nebbie dondolano sul capo

il tremolio dell’acqua veglia sul lamento

dal tuo letto cadono misteri.

Pesa come fiamma flebile

la poca voce.

 

Non avere paura

a cielo calmo la notte

è un bacio buono

ora è un buco.

 

Dovrebbero proibirla la realtà?

A noi deboli di guancia

torbidi di dubbi e diavoli?

Rincasare a piccoli spicchi

piano come cantilena negli anni…

la notte ci fa cani

non avere paura.

 

A m.

 

Veronica:Nella poesia che hai appena letto dici: Dovrebbero proibirla la realtà?/ A noi deboli di guancia/ torbidi di dubbi e diavoli? Dovrebbero?

Francesca: Hai colto una domanda fondamentale, centrale di tutta la vita e di tutte le vite. Il dramma dell’esistenza per certi aspetti è inguardabile. La poesia ha la forza di guardarlo in faccia e non di mettere una mano davanti come ad esempio la statua che abbiamo qui a Bologna del Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca che su questo aspetto mi viene sempre in mente. Dobbiamo porci la domanda in questo senso sulla poesia. Perché la poesia ha la forza di scendere in questi abissi? Di arrivare fin dove l’uomo non riesce a guardare lo spaventoso, la realtà spaventosa, torbida, sì, di dubbi, diavoli, tutto quello che vogliamo. E la bellezza di cui abbiamo parlato prima cosa c’entra? La poesia non è certo schizofrenica, cioè nel senso che divide i due aspetti, in una poesia si parla della gioia e in una poesia si parla del dolore. Almeno mi auguro che non sia così. In che senso? Gioia e dolore nella vita esistono in parti uguali, al 50%. (Sorride) Diciamo così 51 gioia, 49 dolore. E quindi mi auguro che in ogni poesia ci siano questi due aspetti che devono esistere insieme. Non può essere evitato uno in nome dell’altro. Dunque anche se dovessimo avere davanti questo mostruoso, questo torbido, l’unica alternativa possibile è di attraversarlo cercando quella rosa di cui parlavo prima, cercando sempre e comunque quel punto che ci permette di non cadere nella disperazione. E secondo me la poesia ha questa capacità di cogliere questa luce che è forte come l’abisso. Ad esempio Maritaine, questo filosofo coglieva in Dante la sua innocenza creativa. Parlava di Dante come ingenuità bambinesca. Perché? Perché Dante credeva a tutte le cose. Quindi io credo che la via più bella che possa avere la poesia è credere a tutte le cose, avere fiducia in tutte le cose e avere questa prospettiva di fiducia. E se possiamo leggere qualcosa ai bambino prima di andare a dormire credo che l’unico sia l’Inferno di Dante perché poi c’è il Paradiso. Le favole sono così, c’è prima l’inferno e poi il paradiso. La poesia dovrebbe essere così. Dovrebbe essere un attraversare in nome di una prospettiva, non in nome, sicuramente, del nulla.

Francesca legge una poesia tratta da Il rubino del martedì

 

E’ sempre poco il tempo

per guardare le stelle

di ora in ora le sento cedere come truppe

stanche intorno ai fuochi.

È il tempo del fucile spento

la canna fredda tocca il mento

tengo il brivido, le mani in alto

il viso è un bambino scalzo

gli occhi come fionde tirano un sasso

non si sente il tonfo di niente

non fucilare il mio guardare

dov’è l’identità infinita?

il nome che spacca la vetrata della vita?

Il lago specchia me ondulata

imposte rotte sbattono parole vecchie.

Il cielo non è un bar per gente sola

ordino per te la pioggia

e Gesù fra i rami dell’acqua

come un puscher ci guarda

con la roba che spezza la morte.

Veronica: E’ arrivato il momento di salutarci. Volevo ricordare che le due raccolte poetiche di Francesca Serragnoli Il fianco dove appoggiare un figlio e Il rubino del martedì sono reperibili sul sito della casa editrice www.raffaellieditore.com oltre che in tutte le librerie. Se volete seguirvi potete consultare il sito www.ilrubino.it o scrivere a info@ilrubino.itGrazie a Francesca Serragnoli.

Francesca: Grazie a voi.

Veronica: Grazie a Simonluca Laitempergher per tutto il supporto tecnico e un grazie a voi per averci ascoltate. Alla prossima puntata.

Trascrizione puntata con Marco Bini

11 novembre 2013 at 10:15

Benvenuti, sono Veronica Tinnirello e questo è Il Rubino, una trasmissione dedicata alla nuova poesia italiana. Oggi parleremo di e con Marco Bini, del suo libro Conoscenza del vento e degli inediti più recenti. Ascolteremo i brani selezionati da Marco: Wasted degli Angus Mc Og e Hitch di Mara.

Come già anticipato oggi sarà nostro ospite Marco Bini, nato nel 1984 a Vignola in provincia di Modena. Pubblica Conoscenza del vento con Ladolfi editore nel 2011 (vincitore del Premio Giusti, Premio Beppe Manfredi, e finalista Premio Camaiore e Premio Penne). Collabora con l’organizzazione di Poesia festival in provincia di Modena.

 

Marco legge un testo tratto da Conoscenza del vento

 

Non ti chiedo un rimborso in denaro

per il disturbo, solo quel briciolo di tempo

mi occorre che adoperi la sera

tra la doccia e le lenzuola per tastare

il polso alla tua vita inondato

dalla luce dello schermo, un apostolo.

Ti chiedo questa cosa: riuscirai

a non farti prendere dal panico,

intendo alla prospettiva delle cose

che domani tiene in serbo per noi?

Non sentirti tuo più in là del pianerottolo,

rientrare nel personaggio, affiancare

come sempre il cucchiaio e la forchetta,

raccogliere i tuoi avanzi e ricomporli dopo cena.

Ritmo, fegato, pazienza: questo non ci manca.

Potremmo farne a meno, noi come pellerossa

carponi sulle traversine, se il minimo sussulto

non ci allarmasse nel battere dell’ordinario?

Se non fossimo sempre pronti a farci un altro goccio.

Se non ci ficcassimo in bocca spazzolino

e lima, per lavarli, i denti, e affilarli.

 

Veronica: Ciao Marco, benvenuto.

Marco: Ciao, grazie d’avermi invitato.

Veronica: Come scrivi nella poesia appena letta, tratta dal tuo primo libro Conoscenza del vento: riuscirai a non farti prendere dal panico, intendo alla prospettiva delle cose che domani tiene in serbo per noi? Mi sembra un’interrogazione attualissima. Riusciremo a non farci prendere dal panico per il domani?

Marco: Chiaramente mi auguro di sì. Penso che il chiedersi del domani sia un’interrogazione certo attuale però è anche una domanda che ci siamo sempre fatti, da quando esiste l’umanità. Oggi forse è diventata più stringente perché si parla molto di futuro soprattutto in relazione alle condizioni delle generazioni più giovani. In questa poesia che ho letto ho provato un po’ a mettere dentro questa atmosfera, queste domande, queste ansie. Ovviamente non è semplice racchiudere in una sola poesia tutto lo spirito di un tempo. Si prova ad andare per immagini, ad azzeccare qualche idea. Questo insomma è quello che può fare un poeta. Non si tratta di raccontare tutto il mondo e tutto quanto ci riguarda in una sola poesia. Si tratta di trovare quell’idea, quell’immagine, quella parola che accende e che dona un senso diverso alle cose.

 

 Marco legge un testo tratto da Conoscenza del vento

 

Perché non sia la nebbia un infarto a mezz’aria delle cose,

che tutto già pesa da sgocciolare fino a terra.

Non sia spazio, spazio ancora, superflua distanza

cosparsa tra i viventi. Non sbandiamo, teniamoci d’occhio.

 

Non c’è luce che non passi dal fondo del tunnel

prima di investire la pupilla all’altro capo

col respiro che si allarga rinnovandoci la pelle.

 

Viene l’ora di portare le ossa a crepitare contro il fuoco;

quando il sole scende al primo piano e la casa

è una meraviglia di arancione per la retina

vorremmo liberarci dai contorni nella stretta,

lasciare lo zaino a terra e correre alle braccia che consolino

queste spalle troppo forti ancora da non servire a niente.

 

Veronica: Abbiamo ascoltato Wasted degli Angus Mc Og, band modenese composta da Antonio Tavoni, Daniele Rossi e Lucio Pedrazzi. Cosa ti lega al brano che hai portato?

Marco: Angus Mc Og è un gruppo che conosco da tempo, li ho seguiti più o meno dagli inizi, vengono dalla mia città. Quindi c’è un pezzo di percorso in comune, ci sono stati scambi di idee fra di noi, si è parlato anche spesso di poesia, di libri. Questo pezzo in particolare Wasted parla di ciò che si perde, ma anche del perdersi più in generale. È un pezzo dai toni soft che poi si accende, diventa cattivo, più secco per poi tornare a una sorta di pace. È uno stato d’animo che credo colga molti di noi, un pezzo che in qualche modo ci racconta.

Veronica: Nei tuoi testi ci sono dei riferimenti ai grandi eventi: per esempio il prima e il dopo l’11 settembre, la cortina di ferro, le due Germanie, Teutoburgo. Per una voce così attenta al presente come la tua, che scrive del Costo del lavoro, del pendolare che definisci un Cristo quotidiano tra casa e calvario, come entra in relazione la tua poesia con la Storia?

Marco: La Storia è la quarta dimensione di ogni luogo. A me piace molto scrivere a partire dai luoghi anche se spesso non li nomino direttamente. Spesso utilizzo toponimi che sono in realtà simbolici, che sono interessanti per ciò a cui rimandano. Il tempo ovviamente è la dimensione ulteriore delle cose. A volte la storia di un luogo apre voragini abissali, dà la vertigine e ti dà la sensazione di ciò che vi è avvenuto, degli uomini e delle donne che si sono succeduti. Credo che sia il tempo il completamento di una poesia. I fatti storici sono ricchissimi di suggestioni. Io ne ho utilizzati alcuni, a volte indicandoli direttamente, a volte invece li ho utilizzati per il loro potere simbolico. E poi ci sono invece quei fatti storici che appartengono al nostro tempo come l’11 settembre con i quali ci si prova un po’ a confrontare. Non sempre se ne esce bene perché confrontarsi con la stretta attualità a volte fa uscire con le ossa rotte un poeta, uno scrittore in genrale. Altre volte si riescono a cogliere suggestioni che sembrano funzionare. Poi sarà il tempo a dire se quella raccolta è stata efficace.

 

 Marco legge un testo inedito

 

Solo agli strilli rimane un senso di verticale

da basso risalire; qui non si misurano in acri

ma in lembi da strappare alla piena che risale

i magri gli avanzati i salvabili resti.

 

Dopo un’entrata assassina il guaito accarezza

soltanto la punta dell’erba; qui non il cerotto

ma la crosta rimargina al circostante

vetrocielo: siamo fatti per le storie da ascoltare

 

se è vero che dormono le armi in fondo ai pozzi

e gli striscioni fatti a brani stanno bene con il nodo

sopra la camicia. Ci sono rughe nette lungo il mento

e poche tenui parole; qui si ride ormai di tutto.

 

Veronica:Mi sognavo da grande casco e scafandro, astronauta, recitano alcuni tuoi versi. Come un’astronauta che si volti a guardare la terra afferrandone tutta la sua vastità, il suo passato, il suo presente, il suo futuro….il tuo è uno sguardo consapevole. Nel primo atlante, ricevuto in dono da tuo padre, capisti il senso di “provvisorio”. Tutto cambia, si muove. E’ questa la conoscenza del vento di cui parla questa tua prima raccolta?

Marco: Sì, sicuramente il tempo è la figura per eccellenza del cambiamento, del movimento delle cose e quindi conoscere il vento significa anche questo. Significa anche però annusare l’aria, mettere la testa fuori dalla tana. Come ogni primo libro è anche un po’ un libro di formazione, una specie di personale romanzo di formazione anche se non c’è un personaggio “io” costantemente in scena. C’è una prospettiva un po’ più collettiva, un “noi” che si allarga un po’ a ciò che mi circonda e a chi mi circonda. E poi Conoscenza del vento è un titolo che mi ha dato modo di fare un omaggio anche a due poeti che amo molto che sono Giovanni Giudici, poeta italiano morto un paio d’anni fa che tradusse l’americano Robert Frost in un libro uscito qualche anno fa che si intitolava Conoscenza della notte. Insomma questa risonanza mi ha dato modo di omaggiare due autori che in qualche modo di sono incontrati, che mi piacciono entrambi e si rincontrano forse in questo mio titolo.

Veronica: Si respira una ventata anglo-americana nei tuoi testi, il tentativo di preservare le proprie italiane radici, citi Roversi in esergo, ma al tempo stesso come un albero che cresce è presente la necessità di farsi spazio e proiettarsi fuori dai nostri confini, che sono poi anche i nostri temi, i nostri lessici. In quest’ultima edizione di Poesia Festival nella provincia di Modena è stato ospite, tra gli altri, Tony Harrison, che so essere un tuo “mentore” ideale. Citi Larkin in una tua poesia. Cosa va cercando il tuo linguaggio?

Marco: Amo molto tantissimi poeti italiani e moltissimi autori stranieri. Certo sono due anime. Come lettore ho queste due anime ed è difficile farle convivere poi nella scrittura anche perché è complicato essere programmatici e decidere che un certo poeta magari straniero con il suo modo di usare la lingua possa entrare nel tuo fare poesia. Di solito la poesia tende a fuggire dagli schematismi, dai programmi, dai progetti. La mente si accende su un’idea, su una parola. Si pensa di poterne intuire la traiettoria però in realtà quasi mai va a finire come ci si immagina. Certo però trovare una propria lingua necessita di un confronto il più ampio possibile con tante voci che sono tanti immaginari, tante capacità di piegare la lingua alle proprie esigenze, tanti lessici. Ed è proprio da questo grande calderone, quasi come un minestrone che può uscire la propria voce e che si può tentare di levarsi quelle scorie del poetese, comunque della lingua che si supporrebbe poetica, che sono in realtà ciò che impedisce di scrivere una buona poesia.

Marco legge un testo inedito

 

GRAN TORINO

Pelle e vernice e la storia del loro amore

di domenica mattina, un fiato appena d’aria

si infila e riflette sulla scocca il torace.

 

Un doppio opaco come perso in una nebbia.

 

Si fatica ad essere fieri quando esce il peggio

a Okinawa, in Corea o a MyLai nel Vietnam,

poi gli anni ingranano la quinta e sei ancora

un uomo, la sua casa, un vecchio ferro per difenderla

ed uno per correre nel sole e fermarsi all’imbrunire

per un ultimo bicchiere all’ora di chiusura.

 

Vivere da reduce è aspettare sotto il portico la sera

e preservare questo francobollo di avamposto:

la rimessa, un giro di grondaia, sul confine la bandiera.

Veronica: Questa era Hutch di Mara, una cantante ravennate che insieme a Francesco Giampaoli ha debutatto con Dots, disco uscito per le edizioni Spigolo/Brutture Moderne. Come mai questo brano?

Marco: Ho avuto modo di ascoltare recentemente Mara e mi è piaciuto molto perché ha questo modo di scrivere canzoni, di fare musica, estremamente delicato, soft e poi perché è una voce femminile. Prima ho proposto una band con voce maschile. Oggi ci sono tantissimi gruppi di grande valore e non conta più la differenza di sesso. Di lei mi piace molto la leggerezza, la levità, la pulizia che però non è patinata. È una cantante secondo me dalle grandi doti sia compositive che vocali, che consiglio a tutti di conoscere.

Veronica: Prima del brano musicale hai letto Gran Torino, un testo ancora per poco inedito che entrerà a far parte di una piccola pubblicazione stampata da Anonima Impressori di Bologna. Qualche anticipazione?

Marco: Anonima Impressori è una realtà nata a Bologna di recente ma che ha delle radici abbastanza lontane nel tempo. Si tratta di un gruppo di grafici che ha deciso da un paio d’anni forse qualcosa di più di mettersi a recuperare caratteri tipografici e quindi rilevare il materiale di tipografia in chiusura o in disuso e di recuperare l’arte della stampa tipografica. Allora visto che ci si conosce da tempo abbiamo pensato, perché non fare qualcosa assieme o questo gruppo di poesie che ho scritto a partire da film come quella di prima che è Gran Torino, un film di e con Clint Eastwood. Stamperemo quindi un libricino con copertina stampata in tipografia, con carte particolari. C’è tutto un lavoro che quelli di Anonima Impressori faranno e ne faremo una piccola pubblicazione artigianale in poche copie da distribuire agli amici e agli interessati.

Marco legge un inedito

 

Rimane un’impronta di corda sulle mani

mentre il sale rende la pelle tutta una scintilla

i denti si pareggiano e la forza spinge come

un fulmine giù per la gola.

L’occhio è inchiodato

al crinale e salire sul serio è un darsela

a gambe fino a un punto alto da sfuggire

a un patto, uno qualsiasi che copra la vista

come al cinema il testone del posto davanti.

Qua sopra a distanza d’aria non ti prenderanno mai.

 

È fuga solo se ti lasciano ma se tu per primo alzi

la polvere si tratta di salvarsi e udire lo scatto

secco di un congegno tra gli stecchi e poi tornare

splendido non via terra ma come in un nuoto

in una brezza da far torcere i colli, che spettacolo

sarebbe.

 

Veronica: E’ arrivato il momento di salutarci. Volevo ricardare il libro di Marco Bini Conoscenza del vento edito da Ladolfi Editore e che per riascoltare la puntata e leggerne la trascrizione potete consultare il sito www.ilrubino.itscrivere ainfo@ilrubino.it.

Grazie Marco

Marco: Grazie a te Veronica

Veronica: Grazie a Simonluca Laitempergher per tutto il supporto tecnico e un grazie a voi per averci ascoltati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Trascrizione puntata con Dina Basso

27 ottobre 2013 at 13:13

Benvenuti, sono Veronica Tinnirello e questo è Il Rubino, una trasmissione dedicata alla nuova poesia italiana. Oggi parleremo di e con Dina Basso, della sua prima opera Uccalamma, La Bocca dell’anima, edita da Le voci della Luna e ascolteremo i branselezionati da Dina: Canzoni Addinucchiata di Cesare Basile e Equivoci amici di Lucio Battisti.

Come già anticipato oggi incontriamo Dina Basso, classe 1988. Cresciuta a Scordìa in provincia di Catania, pubblica alcune poesie in dialetto siciliano su la Gazzetta ufficiale dei dialetti per la casa editrice Prova d’Autore e sulle riviste Le Voci della Luna, Tratti, Periferie, Gru. Con la sua opera prima, Uccalamma – Bocca dell’anima edito nel 2010 da Le voci della luna, ha vinto per la sezione “Autore Giovane” il Premio Gozzano (menzione speciale al premio Carducci 2011)

 

Dina legge un testo da Uccalamma, La bocca dell’anima

 

A prima vota

ca ni curcammu anzemi

fu a notti do terremotu,

e mentri i casi cascaunu

e sutterraunu i picciriddi,

nuautri n’arriminaumu ’nte linzola,

carni ccu carni.

Nun sulu tu,

macari a terra mi vosa avvisari,

c’avissa statu chiantu

e sangu e sudura,

u nostru juncirini,

viviri,

parrari.

 

La prima volta / che siamo andati a letto insieme / è stata la notte del terremoto, / e mentre le case cadevano / e sotterravano i bambini, / noi ci rigiravamo tra le lenzuola, / carne con carne. // Non solo tu, / anche la terra mi ha voluta avvisare, / che sarebbe stato pianto / e sangue e sudore, / il nostro unirci, / bere, / parlare.

 

Veronica: Ciao Dina, benvenuta

Dina: Ciao 

Veronica: Ci hai appena letto un testo tratto dalla tua opera prima Uccalamma, La bocca dell’anima... Un’unica sequenza di 53 testi in versi liberi. Perché Uccalamma?

Dina: Ho scelto questo titolo perché è un punto centrale dell’organismo…Sta al centro ed è la bocca dello stomaco dove si sentono le emozioni, gli appetiti sia quelli positivi che quelli negativi. Mi piaceva all’inizio la parola quindi pensavo che fosse solo un’attrazione fonica poi invece mi sono resa conto che essendo un punto di scambio tra l’interno e l’esterno poteva presentare bene la mia concezione di poesia. E quindi uccalamma fu.

Veronica: Leggendoti infatti si percepisce chiaramente che il rapporto del tuo io poetico con il dentro e il fuori da sé è veicolato da azioni fisiologiche, prettamente carnali o comunque legate alla sfera del cibo. Per esempio scrivi: ”perché se una sera non mangio/ non mi riconosco,/ e ficcarmi cose dentro/ è l’unico modo/ per sentire che ancora/ vivo.

Dina: Sono una di quelle persone che pensa che il corpo possa essere un punto di partenza quando si scrive poesia anche se qualcuno definisce questo modo di fare poesia ombelicale e mi fa molto ridere questa cosa perché quando eravamo un feto dall’ombelico traevamo nutrimento. Non vedo un’accezione negativa in questo ritornare diciamo così alla pancia. Non vuol dire fermarsi alla propria pancia ma può voler dire anche parlare alle pance degli altri. Poi il cibo appunto non lo vedo come semplicemente una preparazione ma come qualcosa di culturale che viene elaborato, viene vissuto, viene incamerato. È un rapporto costante con l’esterno. Quindi mi sembra riduttivo parlare di questo solo in termini corporei, dispregiativi.

 

Dina legge un testo da “Uccalamma, La bocca dell’anima”

 

M’ammugghiatu a muta a muta
comu a vastedda ‘ntò pagghiazzu,
m’a tagghiatu feddi feddi
– ma ‘ppujata ‘ntò pettu
cco cuteddu curcatu,
e m’a ittatu fora da casa
comu si levunu i muddichi
supra a tuvagghia,
a fforma di llisciata.
Cchiù ca na fimmina ppi ttia
aju statu ‘n pani ‘i casa,
ca tira na simana
e poi
‘ddiventa petra.

 

Mi hai avvolta senza dire nulla/ come la pagnotta nello straccio,/mi hai tagliata a fette/- ma appoggiata al petto/ col coltello di lato,/ e mi hai buttata fuori di casa/ come si tolgono le molliche/ sulla tavoglia,/ col gesto di una lisciata;/ più che una donna per te/ sono stata un pane di casa,/ che dura una settimana/ e poi/ diventa pietra

 

 

Veronica: Abbiamo ascoltato Canzoni addinucchiata di Cesare Basile. Quando ho contattato Dina le ho chiesto, oltre alle poesie di portare una sua selezione musicale, qualcosa che le fosse molto vicino. In questo caso ti scopriamo coautrice insieme a Cesare Basile della canzone che abbiamo appena ascoltato, tratta dall’ultimo album frutto del suo ritorno in Sicilia, del suo impegno nell’ambito dell’Arsenale (Federazione siciliana per le arti e la musica) e del teatro Coppola occupato di Catania. Come è nata questa collaborazione?

Dina: Sì, quando è uscito il mio libro ho inviato una copia a Basile e visto che aveva inciso delle canzoni in dialetto nel suo penultimo disco ho pensato che potesse semplicemente interessargli. Poi da lì è nata una collaborazione abbiam fatto delle cose insieme e mi ha chiesto di scrivere questo testo che appunto è entrato a far parte dell’ultimo disco. 

Veronica: Sempre in Uccalamma mi ha colpita una poesia in cui riveli: Quando mi siedo col foglio davanti però/ nella testa ho lo scordioto che mi macina,/ nella bocca l’italiano che mi arrotola la lingua,/ nel petto il napoletano,/ che con Scordìa non c’entra niente,/ ma è la lingua di quando t’incazzi /e di quando scherzi./ E allora la mano si confonde,/ non sa come scrivere[…] La tua lingua poetica per eccellenza è il siciliano. Che legame hai con queste tue radici linguistiche?

Dina: Per me è molto difficile rispondere. E’ un legame altalenante dipende dal momento che sto vivendo. Vivo lontana dalla mia terra quindi non è una lingua che pratico ma come scrivevo qualche tempo fa la invento nella distanza come un amore per corrispodenza quindi cerco di viverla in una quotidianità che però non esiste, può essere al telefono coi miei ma è difficile. Le seduzioni dell’italiano sono tante e sono stata una bambina educata all’italiano seppur con una dizione discutibilissima però il dialetto è arrivato dopo nella mia vita.

Veronica: Sempre a proposito di radici e terra natìa, nel tuo lavoro è presente il riferimento ad una genealogia, tipico dei piccoli paesi dove tutti ci si conosce. Si è conusciuti come “figlia di, nipote di” ; tanto che, quasi a creare una cornice domestica, apri e chiudi la raccolta citando una figura totemica, tua nonna Dina. Inoltre in esergo riporti alcuni versi di tuo zio, il poeta dialettale Salvo Basso.

Dina: Sì, è molto difficile affrancarsi dalla propria famiglia perché secondo me la forma che ti da non è solo quella fisica ma anche quella mentale e questo libro era allo stesso tempo un omaggio ma anche una dichiarazione d’indipendenza dalla mia famiglia che mi ha dato tanti pregi ma anche tanti difetti. Penso che comunque non si possa essere altro senza aver scavato profondamnete in quelli che sono i motivi di una famiglia che si tramandano di generazione in generazione. Penso che ogni famiglia abbia i propri nodi attorno a cui si può lavorare. Mio zio in tutto ciò è stato una figura importantissima perché è stato quello che mi ha fatto scoprire il potenziale espressivo del dialetto ma era un intellettuale quindi una figura di riferimento sin da piccola, sicuramente un modello positivo.

  

Dina legge un testo da Uccalamma, La bocca dell’anima

 

T’aju ‘mpastatu

ppiddaveru

comu ma matri m’ansignau

a ‘mpastari u pani,

dicennumi ca

a forza nunn’è ‘nte manu,

è, ‘nte puzza;

e ju m’i rrumpu,

ccu ll’acqua e a farina,

finu a quannu nun su

na sita liscia e citrigna.

Poi ti fazzu,

comu a pasta,

un signali  a ccentru

e ti cummogghiu cca cuperta

aspittannu ca crisci,

ogni tantu jennu a taliari

a cchi puntu stamu,

e lassariti ancora ripusari

ppi poi pigghiariti nautra vota

nte manu

e stinniriti,

stinnicchiariti.

Ti ho impastato / veramente / come mia madre mi ha insegnato / a impastare il pane, / dicendomi che / la forza non è nelle mani, / è, nei polsi; / e io me li rompo, / con l’acqua e la farina, / fino a quando non sono / una seta liscia e soda. / Poi ti faccio, / come la pasta, / un segno al centro / e ti copro con la coperta / aspettando tu cresca, / ogni tanto andando a guardare / a che punto stiamo, / e lasciarti ancora riposare / per poi prenderti un’altra volta / in mano / e stenderti, / stiracchiarti.

 

Veronica: I tuoi testi conservano un rapporto col parlato molto forte. Sergio Rotino, presentandoti sulla rivista “Le Voci della Luna” ti descrive come una Voce onesta fin quasi alla sfrontatezza, tenuta a bada da un’ironia pacata. C’è molta ironia infatti, molto humour nero in questo che io definirei un canzoniere d’amore-domestico anche quando tratti della morte o della lontananza e dell’assenza…

Dina: Sì, l’ironia è uno dei tratti distintivi della mia famiglia, è una delle cose positive che ho ereditato. C’è da dire che si può essere ironici solo dopo aver analizzato a fondo ciò che ci fa star male, ciò che ci da fasidio quindi anche la morte in fondo. Quella che non tollero, che non sopporto è l’ironia del “cambiamo discorso” dello sdrammatizzare per non scendere nel profondo delle situazioni. Ecco quella spero che non mi appartenga né nella vita né nella poesia.

Veronica: Nei tuoi testi spesso si trovano riflessioni metapoetiche. Scrivi: […]ascolta me,/ non serve a niente coprirsi/ tanto quando scriviamo/ siamo sempre nudi[…]. Si sente, nei confronti della materia poetica, il punto di vista dell’artigiana. Mi è piaciuto molto quando in una tua poesia ho letto […]anch’io,/ dalla manovalanza di lettere e accenti,/ a poco a poco mi sono insegnata il mestiere,/ che uno non se lo dimentica/ neanche quando è vecchio,/ neanche quando muore.

 Dina: Per me la poesia è artigianato in quanto prodotto culturale. Mai si dica che è la verità quello che scrivi perché scrivere è tradire, mettere in parola significa comunque operare una traduzione, non credo che sia così semplice e che non venga pensato, studiato e anche quindi cambiato il nostro sentimento per andare sul foglio. E’ certo che ho iniziato a scrivere presto quindi lentamente sto accumulando un po’ di strumenti. Ora sono solo all’inizio del percorso e non so neanche che strade percorrerò dal punto di vista poetico.

  

Dina legge un testo da Uccalamma, La bocca dell’anima

 

Semu comu du

limitanti da campagna:

nasu ccu nasu

un capiddu anmenzu

ricinzioni

di ferru filatu

e buttigghi ‘i plastica,

u filu ‘i spuzatta c’arresta

dopu ca ni vasamu;

ma a terra nun sapa a ccu

appartena

e sfuncia e sa sparta comu vola,

nun sapa metraturi

– mancu patruna –

canuscia sulu i radichi d’a macchia

e a iddi s’ampica

di iddi sa stacca.


Siamo come due / confinanti di campagna: / naso con naso / un capello in mezzo / recinzione / in fil di ferro / e bottiglie di plastica, / il filo di saliva che resta / dopo che ci baciamo; / ma la terra non sa a chi / appartiene / e deborda e si divide come vuole, / non sa metrature / – neanche padroni – / conosce solo le radici della pianta / e a loro si aggrappa / da loro si stacca.

 

Veronica: Equivoci amici di Lucio Battisti è l’altro pezzo che hai portato… 

Dina: Sono nella scoperta della fase “bianca” di Battisti e ne sono molto attratta perché è la fase in cui Battisti stravolge i fan e l’opinione pubblica perché non rilascia più interviste non fa più neanche concerti, si dedica soltanto alla scrittura con il paroliere Pasquale Panella che… questo testo gli equivoci amici sono proprio dei nomi, delle parole. Ci sembra di ascoltare qualcosa di familiare e invece dentro c’è un inghippo c’è una vocale in più, una consonante in meno e tutto ciò crea disorientamento nell’ascoltatore. E’ un testo molto ironico e come molti testi di Panella di difficile decifrazione. Però rappresenta in qualche modo uno dei miei aspetti, cioè il fatto di essere una persona comunque giocosa e ironica nonostante magari da molti testi emerga un po’ una pesantezza.

Veronica: Oltre a Uccalamma, hai recentemente pubblicato sulla rivista online “Gru” una breve raccolta di inediti, che s’intitola Monili.

Dina: Uccalamma adesso è un libro che mi ha portato molta fortuna perché ho girato tantissimo per l’Italia a leggere, ho vinto premi, sono stata apprezzata. Però insomma è venuto fuori dell’altro che è stato raccolto in “Monili” che è un titolo un po’ strano per me perché è un titolo in italiano però mi sono ispirata a un artista che aveva rappresentato la violenza dell’11 settembre come un orecchino, diceva la violenza è un orecchino ce lo possiamo togliere quando vogliamo. Alla fine anche il dolore volevo che fosse un orecchino da togliersi all’occorrenza e per di più anche bigiotteria, qualcosa di un po’ falsotto, un pò pataccone e quindi monili rappresentava un po’ questa forma aggraziata ma allo stesso tempo che non è vero, che non mi appartiene realmente.

 

DINA legge un testo da Monili

 

Aju dittu sempri

ca cani nun ni vogghiu,

picchì poi attocca

nun sulu darici a mangiari

ma suprattuttu nesciri

cco caudu o cca nivi

ppi purtalli a sfantasiari:

ma uora,

macari senza cani m’arritrovu,

di notti

e di capumatina,

a purtari ‘nte strati u desidderiu

di vidiriti,

a fallu nesciri,

ca dintra a casa ‘mpazziscia,

e u fazzu pisciari

a ogni cantunera,

spirannu ca poi, tu

passannu di ddà

u senti u fetu di mia,

e continui sciarannu l’aria

a ma stissa

prucissioni.

Ho detto sempre / che cani non ne voglio, / perché poi tocca / non solo dargli da mangiare / ma soprattutto uscire / col caldo o con la neve / per portarli a svagare: / ma ora, / pure senza cani mi ritrovo, / di notte / e di mattina presto, / a portare nelle strade il desiderio / di vederti, / a farlo uscire, / che dentro casa impazzisce, / e lo faccio pisciare / ad ogni angolo, / sperando che poi, tu / passando di lì / la senti la puzza di me, / e continui annusando l’aria / la mia stessa / processione.

 

Veronica: E’ arrivato il momento di salutarci. Grazie a Simonluca Laitempergher per tutta l’assistenza tecnica. Vi ringrazio per averci ascoltati. Grazie Dina. 

Dina:Grazie a te.